Meditazioni sul tema del “tifoso offeso”. O fesso? L’arcangelo Gabrielli si è scagliato contro la Sodoma delle curve. E i tifosi che fanno? Disertano in massa. Solo trentacinquemila irriducibili alias abitudinari domani per un derby che, di solito, ne fa ottantamila. Era un derby anche quello in cui l’immaginifico Rudi Garcia annunciò di aver rimesso la chiesa al centro del villaggio. Suo il grido di dolore, alla fine di Roma-Bayer.
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Curve vuote, Dotto: “Questi sono tifosi della loro battaglia identitaria più che delle loro squadre”
“Dalla morte di Paparelli in poi invochiamo le regole dentro gli stadi. Da trentasei anni. Uno Stato debole e infingardo ha lasciato le società sole a battersi contro l’octopus del Tifo Padrone. Liberiamo gli stadi dalle barriere ma anche...
“Loro, i tedeschi hanno scatenato l’inferno in casa. E noi? Dov’è finito il nostro inferno?”. Tutto inutile. Dov’è finito l’inferno e dov’è finito il paradiso? Al centro e in periferia. I fedeli dell’una e dell’altra sponda restano a casa, sdegnati. Si predica nel deserto. Un pulpito senza palpito. Sarà un derby “fake”, come le tette di Cicciolina, replica plastificata e pornografica di qualcosa che nemmeno somiglia all’originale.
L’Olimpico deserto. I conti e i canti non tornano. Ripartiamo dalla notte dei tempi. Il lessico basico. I dogmi sentimentali dell’ultrà che è dentro e fuori di noi. Il tifo è “una religione”. La Roma (la Lazio) “si ama, non si discute”. Roma (o Lazio) “senza di te non so stare”. La Roma (la Lazio) “è una fede”. Fino al “Non mi sposo perché amo la Roma (o Lazio)”. Siamo dentro la lingua dei mistici. Nella lezione dei mistici. Tutto ciò che è amore è estasi, ovvero annientamento dell’ego. Tutto ciò che è devozione è sottomissione. La preghiera, il canto, la litania, sono lo spartito vocale di questo dichiararsi “nulla” rispetto al “tutto”.
Santi, templari e menestrelli. Dalla Teresa D’Avila del “conformarsi alla volontà di Dio” all’Antonello Venditti di “Dimmi cos’è che ci fa sentire uniti anche se non ci conosciamo…”, passando per Goffredo di Buglione. Dal Giovanni della Croce dell’illuminante “Impara ad amare Dio come Egli vuole essere amato e lascia il tuo modo di fare e di vedere” al Bono e al Johnny Cash del ”We’re one, but we’re not the same/We get to carry each other/carry each other/One” (“Siamo una cosa sola, anche se siamo diversi/Dobbiamo sostenerci a vicenda/Sostenerci l’un l’altro/Uno”). Bono e Cash hanno cantato la fusionalità del corpo tifoso, senza volerlo e senza saperlo. Forse.
Intrappolati e accecati nel loro ego di massa, i tifosi disertori dovrebbero prendere la folgorante lezione di Giovanni della Croce e tradurla in oro colato: “Impara ad amare la Roma (la Lazio) come Lei vuole essere amata e lascia il tuo modo di fare e di vedere”. Basta ripetersela cinque volte, al buio, nella propria cameretta, genuflessi al poster di Totti o di Klose, per mandare a fanculo tutto e tutti, a cominciare da se stessi, e tornare in massa allo stadio.
L’arcangelo Gabrielli, parole e parola sua, sarebbe il primo a rinfoderare spadoni e barriere. Non vede l’ora. Non ci prova gusto a essere insultato. Non bastasse. Ancora Bono. “Love is a temple/ Love the higher love” (“L’amore è un tempio/L’amore è la legge suprema”). “One love/One blood/One life” (“Un solo amore/Un solo sangue/Una sola vita”).
Nella Sud o nella Nord degli anni ’60 e ’70, il tifoso capitava bambino, anche quando era vecchio, unto dal Signore e dalla mamma con la sua scorta di fede e di frittata e quando la sua squadra perdeva, spesso, incrociava il suo sguardo dolente con quello della Madonnina di Monte Mario, invocando il miracolo. Un solista della fede disperso in una comunità che vibrava all’unisono.
Oggi, il “tifo organizzato”, la fede organizzata, sciopera, diffonde comunicati dove si dichiara: “Noi, mai complici” e “mai collusi”. Archeologia e vanità linguistica della politica antisistema. Slogan di partito più che di fede. Oggi, i tifosi disertori di Roma e Lazio sono la negazione del tifoso. Tifosi della loro battaglia identitaria più che delle loro squadre. Devoti a se stessi e al loro ego gigantesco più che alla maglia. Basta saperlo e basta dirlo. Dalla morte di Paparelli in poi invochiamo le regole dentro gli stadi. Da trentasei anni. Uno Stato debole e infingardo ha lasciato le società sole a battersi contro l’octopus del Tifo Padrone.
Ora che interviene, con colpevole ritardo e inevitabili forzature, gridiamo allo scandalo. Costringiamo, a forza di inequivocabili esempi, guardiani, sbirri e arcangeli a liberare gli stadi da ogni barriera. Liberiamo gli stadi dalle barriere ma anche dall’ego dei tifosi. Proviamo a tornare all’origine di tutto, come accade negli stadi inglesi e tedeschi, alla follia del tifo, al mistero di ottantamila individui che diventano comunità per novanta minuti, al “Dimmi cos’è che ci fa sentire uniti anche se non ci conosciamo”. Infinitamente complici e infinitamente collusi. Di tutto ciò che ci palpita intorno.
Giancarlo Dotto (Dagospia.com)
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