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Cudicini: “Per me è un onore essere ricordato a distanza di tanti anni”

L'ex portiere della Roma rilascia un'intervista al club giallorosso: "Qui sono diventato grande e ho vinto i primi trofei della mia carriera. Quando andai via io e mia moglie piangemmo"

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Fabio Cudicini, inserito tra i candidati alla Hall of Fame 2014 nella categoria “L'era dei pionieri” ha rilasciato un'intervista al sito ufficiale della Roma. Queste le sue parole: "Qui sono diventato grande e ho vinto i primi trofei della mia carriera. Quando andai via io e mia moglie piangemmo. Per me è già un onore essere ancora ricordato a distanza di tanti anni".

"Alla Roma arrivai proprio grazie al direttore sportivo di allora, Busini. Mi conosceva dall'Udinese e mi fece questa proposta che accettai con entusiasmo. Avevo 24 anni, l'età giusta per fare il salto di qualità in una piazza importante. Il mio cartellino costò 30 milioni , lo ricordo bene. Un costo normale per un giocatore dell'epoca".

Da Udine alla Capitale, fu complicato l'ambientamento da una piccola a una grande realtà?

“No, affatto... E lo sa perché?”.

Perché?

“Prima di tutto mi trovai subito in sintonia con l'allenatore ungherese Sarosi, che mi fece sentire a mio agio in un ambiente nuovo, ma poi potevo contare sull'appoggio dei miei zii che vivevano a Roma. Andavo tutte le sere a mangiare da loro e dormivo in una pensione. Il loro aiuto all'inizio fu fondamentale”.

Dei compagni di squadra, invece, con chi legò di più?

“Io mi trovavo bene con tutti, ma in particolare strinsi un bel rapporto con Giacomo Losi. Anche le nostre mogli erano amiche e capitava spesso di ritrovarci insieme. Abitavamo entrambi a Monte Mario, portavamo i nostri figli nella stessa scuola”.

Losi era anche il suo capitano sul terreno di gioco.

“E che capitano... Un leader. Aveva grinta e cattiveria, era particolarmente attaccato alla maglia. E questo suo attaccamento lo trasmetteva anche a noi. Mi onoro di averlo conosciuto”.

In campo arrivarono risultati importanti, considerata la dimensione della Roma di allora.

“Vincemmo Coppa Italia e Coppa delle Fiere. Non lottammo mai per il vertice della classifica in campionato, ma andò bene così. Eravamo una bella squadra con tanti giocatori bravi come Lojacono, Manfredini, Corsini, Carpanesi, Guarnacci. E guidati da grandi tecnici come Foni prima e Carniglia poi”.

A proposito di tecnici, è vero che con Pugliese non ci fu grande feeling?

“Non lo nego... Fu lui a chiedere a Evangelisti la mia cessione. Proprio così, andò dal presidente con le idee chiare: “Se vuole che io continui ad allenare la Roma, deve mandare via Cudicini. O lui o me”. Scelsero me. E quando mi chiamò nel suo ufficio per comunicarmi la vendita al Brescia, Evangelisti mi abbracciò pronunciando belle parole: “Sei una persona intelligente, sono sicuro che comprenderai la mia decisione”. Non solo, mi chiese pure un parere sul mio erede alla Roma. Mi fece: “Tu sei del mestiere, devo prendere un portiere tra Zoff e Pizzaballa. Tu chi mi consiglieresti?”. E io: “Prenda Zoff”. Ma non andò così, Pugliese preferì Pizzaballa”.

In che occasione nacque l'attrito con Pugliese?

“Al termine di una partita con la Fiorentina. Scesi in campo in condizioni non ottimali, per questo presi un gol evitabile. In poche parole, feci una brutta figura e mi arrabbiai. Prima del match chiesi espressamente a Pugliese di risparmiarmi, ma lui non si fidava del mio vice, Matteucci. Mi convinse così a giocare dicendomi: “Con te in porta andiamo in Paradiso...”. Queste erano le sue frasi tipiche”.

E poi che accadde?

“Una volta tornato negli spogliatoi, mi tolsi la maglia, la gettai con forza sulla panchina e dissi: “Non scenderò mai più in campo così...”, alludendo al mio stato fisico. Un gesto rabbioso, è vero, ma niente di trascendentale. Sta di fatto che, per quell'episodio, Pugliese andò da Evangelisti a chiedere il mio allontanamento da Roma. Secondo lui avevo mancato di rispetto a tutti”.

Ma perché accettò il trasferimento al Brescia, una squadra meno blasonata?

“Diciamo che si trattò soprattutto di una questione politica. Ero apprezzato dal sindaco di Brescia, tale Boni. Un democristiano amico di Evangelisti. Quest'amicizia permise l'affare, tanto che non mi pagarono nemmeno molto nonostante non fossi del tutto a fine carriera. Andai via da Roma in lacrime e a Brescia mi trovai male giocando poco. Per fortuna durò un anno e poi arrivò il Milan. Ma una soddisfazione me la tolsi con la maglia del Brescia...”

Quale?

“Verso la fine del campionato '66-'67 andammo all'Olimpico a giocarci la permanenza in Serie A contro la Lazio. Io fui schierato titolare, vincemmo 2-0 in trasferta e loro al termine della stagione andarono in B. Non male per un romanista come me...”.