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Cesaroni: “La Roma mi ha tolto il sogno Juve, ma ho sbagliato ad andare alla Lazio”

Cesaroni: “La Roma mi ha tolto il sogno Juve, ma ho sbagliato ad andare alla Lazio” - immagine 1
L'ex giocatore del settore giovanile giallorosso racconta il suo percorso travagliato: "Era tutto fatto con la Juve, ma la Roma mi ha vincolato e non l'ho perdonata. Sono laziale, ma il passaggio è stato uno shock. Con Calafiori siamo una famiglia"
Redazione

Nel fiorente settore giovanile della Roma sono passati tanti talenti che hanno poi sfondato nel calcio professionistico, anche a livello internazionale. Basti pensare a uno come Riccardo Calafiori, ora di proprietà dell'Arsenal e pagato fiori di milioni. C'è chi non ha avuto ovviamente la stessa fortuna, come Nicolò Cesaroni che di Calafiori è grande amico oltre che coetaneo ed ex compagno. Il classe 2002 passato poi alla Lazio è ripartito dall'Eccellenza con il Civitavecchia dopo aver pensato più volte di smettere e si è raccontato in una lunga intervista a 'La Giovane Italia':

La scelta di ripartire da Civitavecchia, scendendo per la prima volta in Eccellenza. “Sì, la scelta di scendere in Eccellenza non era nei miei piani iniziali. Fino a giugno, dopo la retrocessione con il Vastogirardi, ero convinto che avrei trovato una squadra almeno in Serie D. Nonostante la retrocessione, fisicamente stavo bene e credevo di poter fare ancora la mia parte. Avevo ricevuto alcune offerte, ma erano tutte lontane, e dopo tre anni giocati fuori regione non avevo voglia di spostarmi ancora. Considerando anche l’annata complicata - retrocessione e problemi economici con la società - ho deciso di essere più cauto. Mi sono ritrovato a rifiutare troppe proposte e, a settembre, ero ancora senza squadra. In quel momento ho anche pensato di smettere. Poi è arrivata l’offerta del Civitavecchia. Mi hanno voluto fortemente, facendomi sentire importante fin dal primo momento. Questa fiducia è stata fondamentale per ritrovare entusiasmo. Ho colto l’occasione con l’idea di rimettermi in gioco, fare una stagione positiva e magari tornare in Serie D più forte, con la possibilità di negoziare offerte migliori. Sono passato da vincere il campionato in Serie D a retrocedere e poi l'anno dopo l'Eccellenza. È stato tutto assurdo. Sarò sincero, non mi aspettavo questo livello di qualità in Eccellenza, rispetto alla Serie D c’è meno intensità, ma col fatto che non ci sono quote la qualità è salita. Al momento, la stagione sta andando bene e sono contento della scelta fatta".

Partiamo dal tuo percorso: se non sbaglio, hai iniziato alla Petriana giusto? "Sì, esatto. C’erano già i miei fratelli lì, quindi ho iniziato anche io. Tra l’altro, è proprio lì che ho conosciuto Calafiori. Lui è arrivato l’anno dopo, mentre io avevo già iniziato. Abbiamo giocato insieme alla Petriana e poi siamo passati entrambi alla Roma".

A 9 anni sei passato alla Roma, entrando in un mondo completamente diverso per un bambino così giovane. “Sì, è stato incredibile. Ricordo benissimo i primi allenamenti. Noi siamo stati i primi del gruppo 2002 e venivamo selezionati direttamente. Mi ricordo che c’erano tre campetti a Trigoria e abbiamo fatto una sorta di provino giocando una serie di partite a 5. Alla fine, siamo stati selezionati io e Ricky (Calafiori, ndr). Eravamo felicissimi! Lui poi è romanista sfegatato, quindi per lui era un sogno che si realizzava. Vi racconto un episodio divertente. Quando siamo andati a firmare a Trigoria, io e Riccardo, insieme alle nostre famiglie, nel nostro primo anno alla Roma, c’era Bruno Conti nella sala dove si firmavano i contratti. A un certo punto, Bruno ci chiede: 'Di che squadra siete? Qui vogliamo solo tifosi della Roma'. E Riccardo risponde subito: 'Della Roma!'. Io invece, con mio padre dietro di me che mi guardava preoccupato, ho risposto: 'Io… della Lazio!' L’ho proprio detto, senza pensarci troppo! Sì, perché noi siamo fatti così, schietti, anche Riccardo è così!”.

Com'è stato il tuo periodo in giallorosso? Cosa ti ha lasciato, crescere nella Roma fin da piccolo? “Il periodo alla Roma è stato il migliore della mia carriera giovanile. È lì che ho costruito il mio nome da ragazzo. La Roma ti forma tecnicamente come poche altre società in Italia. Se guardi i giocatori che escono dal loro settore giovanile, quasi tutti diventano professionisti. Ai tempi di Bruno Conti, il lavoro era eccezionale. Lui è un maestro nello scovare talenti e le statistiche lo confermano. L’approccio era basato tutto sulla tecnica: controllo orientato, dribbling, sempre con il pallone. Fino ai 14 anni non facevamo quasi mai lavori fisici, solo tecnica. È per questo che escono tanti giocatori forti. Poi, però, è successo un episodio che ha cambiato tutto. Avevo 13 anni, nell’ultimo anno alla Roma. A settembre ero praticamente già d’accordo con la Juventus: ero stato a Vinovo, mi avevano mostrato il centro sportivo, lo Juventus Stadium, persino il museo, il pallone d’oro di Zidane. Mi avevano dato la maglia di Pogba. Era tutto pronto per il trasferimento, ma dovevo aspettare la fine della stagione per firmare. Sembrava fatto, ma sono subentrati dei problemi con la Roma. Un dirigente mi ha praticamente bloccato dicendomi che ero vincolato. Io e mio padre però non abbiamo abbassato la testa, abbiamo sempre portato rispetto a tutti ma quel torto non lo abbiamo perdonato. Così mi precludono il sogno di andare alla Juve. Non per ripicca, ma a quel punto decido di non restare più alla Roma. Mi ha portato alla Lazio Giuseppe Zazzara e lì ho trovato un ambiente che mi ha fatto sentire importante. Anche Tare mi ha accolto bene a Formello e ho scelto di proseguire il mio percorso con loro. Tornando indietro, forse avrei scelto di restare alla Roma, dove ero molto valorizzato, ma a 13 anni è facile farsi prendere dall’entusiasmo".

Raccontaci della Lazio allora… “Essendo laziale da sempre, alla fine decido di andare alla Lazio. Però, devo essere sincero: il settore giovanile della Lazio, almeno quando c’ero io, non era paragonabile a quello della Roma. Mi sono trovato in una realtà molto diversa, con meno organizzazione. C’erano campi con linee gialle da rugby, e per me, che venivo da un ambiente super professionale, è stato uno shock. Il primo anno in Under 15 non è andato benissimo, ma nella seconda metà di stagione sono migliorato. L’anno successivo mi hanno subito portato in Under 17 sotto età, dove ho fatto una buona stagione nonostante diversi infortuni. Sono stato anche convocato per allenarmi con la Primavera a 15 anni. L’anno seguente, a soli 16 anni, ero l’unico 2002 nella Primavera della Lazio. Stava andando bene, ma è arrivata una brutta botta: mi è stata diagnosticata una pancreatite. Sono stato ricoverato e fermo per diversi mesi. Quando sono rientrato, era ormai tardi per riprendermi".

Cosa è successo dopo? "L’anno successivo rimango in Primavera con grandi aspettative, ma qui le cose sono peggiorate. Il nuovo allenatore non mi ha mai dato spazio. Non giocavo praticamente mai. Ho chiesto alla società di andare via, avevo offerte da club come la Sampdoria, ma Tare ha insistito perché restassi, dicendomi che dovevo sbloccarmi mentalmente. Mi convinco a restare, anche per giocare la Youth League visto che la Lazio era in Champions. Purtroppo, il Covid ha cancellato la competizione e quella possibilità è sfumata. Quell’anno ho fatto solo 15 presenze, di cui appena 3-4 da titolare, tra cui la finale di Coppa Italia Primavera. Ormai avevo perso fiducia. Non mi sentivo più quel talento libero di esprimersi come a 14 anni. Avevo bisogno di giocare e di ritrovare serenità, ma in tre anni avevo accumulato pochissime presenze e troppa frustrazione. Alla fine decido di lasciare la Lazio, ma rimango senza squadra fino a fine settembre. Ero deluso, volevo rimanere nel calcio professionistico. Una mattina mi chiama il direttore sportivo del San Giuliano in Serie D. Non ci penso due volte, firmo in giornata e dopo pochi giorni entro subito in campo in Coppa Italia. La settimana seguente, però, durante un allenamento, mi rompo il menisco. Pensavo fosse il crociato. Nonostante il San Giuliano fosse una squadra forte - infatti vincemmo il campionato - l’organizzazione lasciava molto a desiderare: ci allenavamo su un campo di terra pieno di buche, senza fisioterapista né preparatore atletico. Dopo l’operazione, rientro a novembre, ma il ginocchio continua a gonfiarsi. Ogni volta che provavo a tornare in campo, si ripresentava lo stesso problema. Allora decido di fermarmi per fare altre terapie a Roma. A febbraio rientro, ma fisicamente ero a pezzi. L’allenatore credeva in me, mi fece giocare quattro partite, ma ero fuori condizione. Alla quarta partita mi infortunio di nuovo: prima al flessore, poi ancora il ginocchio. Alla fine, durante un allenamento cado e mi faccio male seriamente ad un polso. A quel punto decido di tornare a Roma. Ero stanco, mi ha sfiorato l’idea di smettere. Il club mi parlava di un futuro in Serie C, ma alla fine erano solo parole: non avevo mai giocato un minuto. Così, l’anno dopo sono andato al Grosseto in Serie D".

Vorrei soffermarmi ancora sulla tua esperienza nelle giovanili e parlare delle tue partite in Nazionale… “Ricordo quando ero alla Roma, durante un allenamento a Trigoria. A fine sessione, il mister Mattei chiama me e Cancellieri, dicendoci: “È arrivata una convocazione per lo stage a Coverciano con la Nazionale”. Non ci potevo credere, ero entusiasta. Lo stage durò tre giorni, e il terzo giorno giocammo una partita finale. Durante la partita, mi procurai un rigore e segnai. Fu un’ottima prestazione e da lì iniziarono a parlare tanto di me. Nell’estate successiva c’erano molte voci di interesse da parte di diverse squadre, tra cui la Juventus. Purtroppo, le convocazioni smettono di arrivare. Dopo una stagione molto positiva con D’Andrea in Under 17 della Lazio, vengo nuovamente convocato in Nazionale per un torneo. Al primo allenamento, però, durante una partitella, faccio uno scatto e sento tirare il flessore. Mi rimandano a casa per lo stiramento. Insomma, la fortuna non è mai stata dalla mia parte. Queste sono state le mie esperienze con la Nazionale".

Parliamo del tuo grandissimo rapporto che hai con Calafiori… “Riccardo è un mio amico".

Vi vedete e sentite tutt'ora quindi? "Sì, certo, se lo chiamo, lui mi risponde. A volte, per curiosità, mi chiama più spesso di quanto facessi io, perché io magari non rispondo al telefono. Mi dice: "Ma che fine hai fatto?" La nostra amicizia è radicata anche nelle nostre famiglie, che si conoscono da prima che nascessimo. Poi Riccardo abita praticamente qui vicino a me, a Roma, quando è in città, sta davvero sopra casa mia. Siamo sempre stati insieme, facevamo tutto insieme. Anche a calcio, giocavamo nelle stesse squadre fino ad arrivare alla Roma. In poche parole, siamo come una famiglia, insieme anche nelle vacanze. Per quanto riguarda Riccardo, ti posso dire che sono stra-felice per lui, se lo merita davvero. Ha fatto un grande cambiamento mentale e, secondo me, adesso è uno dei migliori difensori italiani che abbiamo in Nazionale. È un calciatore moderno, con grande qualità. Per essere un difensore centrale, ha delle qualità incredibili".

Come ti fa sentire sapere che il tuo miglior amico ce l'ha fatta e tu, purtroppo, ti ritrovi in Eccellenza? “Non mi fa male pensare che Riccardo ce l'abbia fatta, sono super felice per lui. Mi fa male non essere riuscito a fare lo stesso quando avevo l’opportunità. Però sto bene così, sono un ragazzo semplice. Certo, sarebbe bello giocare in Serie A, ma alla fine se uno sta bene e ha passione, va bene lo stesso. Ho 22 anni, ci sono esempi come Gatti che dimostrano che si può ancora tornare su. Non è facile, sarei ipocrita se dicessi che ci riuscirò domani, ma se ci credo, forse un giorno ci posso riuscire. Ho bisogno di migliorare un po’ a livello mentale, devo ritrovare quella motivazione, perché il sogno mi è un po’ sfumato. Però, come ti dicevo, non mi fa male. Sono felice così. Mi piacciono le cose semplici: la famiglia, la mia fidanzata. Non sono materialista, quindi sono contento anche in Eccellenza. Se mi avessero detto cinque anni fa che avrei giocato in Eccellenza, avrei pensato che fosse una follia. Ma ora sono comunque felice. Ciò che mi piace di Riccardo è che, nonostante sia un giocatore dell'Arsenal, non mi ha mai fatto sentire inferiore. Non si è mai montato la testa. La sua più grande dimostrazione d’amicizia è stata farmi sentire normale. Mi è sempre stato vicino anche nei momenti difficili, come gli infortuni. Lui è rimasto sempre umile, e lo è con tutti. Non è una maschera, è proprio una sua caratteristica".