Edoardo Bove si racconta. In una lunga chiacchierata con Gianluca Gazzoli nel celebre podcast 'BSMT', il centrocampista della Fiorentina è tornato sulle emozioni e le sensazioni del malore in campo, sul suo presente e soprattutto il futuro fatto di incognite: "In questo momento sto bene, sto facendo tante cose, sto cercando di reinventarmi. Sanremo è stata una grande emozione, avevo bisogno di rivivere quell'ansietta forte che mi fa stare bene. Io dico che sono un po' dipendente dall'adrenalina, il fatto di non poter vivere certe emozioni sul campo mi porta a viverle in altri modi".

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Bove: “Sì, andrei a giocare all’estero. Ho paura di scoprire l’Edoardo senza calcio”
Sull'esperienza di Sanremo. "Con Sanremo non pensavo di arrivare a questi livelli. Prima di scendere le famose scale mi mancava quasi l'aria, avevo la gola secca. È stato un mix di emozioni, però volevo essere chiaro per far arrivare un certo tipo di messaggio, essendo sempre me stesso. In tv c'è sempre un copione a cui attenersi, però volevo restare me stesso. Lasciare un messaggio era fondamentale, farlo in breve tempo era ancora più difficile ma Carlo Conti mi ha aiutato".
L'incontro e il primo contatto con Carlo Conti. "Con Carlo Conti ci siamo incontrati per strada a Firenze, quattro giorni prima di Fiorentina-Inter, mi ha chiesto come andava per me e poi è successo quello che è successo. Io ho accettato con piacere l'invito, volevo lasciare qualcosa alle persone perché l'affetto che ho ricevuto in questi mesi è quello che mi sta spingendo ad andare avanti. All'inizio non ero così convinto di raccontare tutto, per me non è facile, sono abbastanza riservato. Ho fatto uno step da quel punto di vista, volevo far capire la mia vicinanza a un determinato tipo di persone. Alla fine tutti dobbiamo superare ostacoli e volevo stare vicino a chi si sente solo nel farlo. Io sto riuscendo a fare certe cose solo perché non sono solo, non oso immaginare chi lo fa senza il supporto di nessuno. E volevo essere vicino a queste persone".
Ti piace il mondo della moda? "La moda è una passione che sto coltivando, ora che ho più tempo, è una cosa simpatica. Ci ho messo tanto a scegliere l'outfit per Sanremo. Alle sfilate mi sento un po' in soggezione, non sono abituato, per quello sto cercando di aprirmi a sensazioni nuove e differenti anche per crearmi una mia esperienza su tutto, a maggior ragione se è una cosa che mi piace. Un mio brand? So che è difficile da fare, alcuni amici mi hanno instradato, ci sono cose che riguardano la fotografia, apprezzo il bello. Non sono un esperto, ma mi piace questo mondo".
Ora sei a Firenze. "Sono fortunato tra Roma e Firenze. Città fantastica, mi sono subito sentito amato, grazie alla gente, passeggiare per il centro è molto bello. L'impatto con le persone è stato incredibile quando sono uscito dall'ospedale, ho visto come è cambiato lo sguardo delle persone. Inizialmente mi dava fastidio, un po' di pena, però non posso biasimarli perché mi hanno visto in quelle condizioni. Però poi ho analizzato come si ponevano le persone nei miei confronti ed erano felici di vedermi. Hanno avuto paura in tanti e questo mi ha fatto capire la gravità di quanto successo, perché una parte di me non crede ancora a quello che è avvenuto. Io mi sono sempre creduto un supereroe, invece ora mi sento vulnerabile".
Ti sei rivisto? "Sì, è la prima cosa che ho fatto quando mi sono svegliato. Volevo vedere subito cosa fosse successo, mi sono svegliato in ospedale senza capire cosa fosse successo. Inizialmente non mi davano fastidio le immagini, ora magari mi escono dei video e mi dà più fastidio. Prima era un capire e analizzare cosa era successo, sono molto razionale. Ora sto recuperando a livello mentale, mi sento bene, ma se rivedo le immagini mi escono fuori delle domande un po' capricciose. Come quelle di un bambino, tipo perché gli altri bambini giocano e io no? Però capisco di essere stato fortunato, ma l'ho capito subito. Vedendo la faccia delle persone a me care capisci subito e ti senti fortunato, magari anche in colpa quando ti fai delle domande capricciose. E dici 'perché a me?' Fa parte del percorso. A parte che sono diventato molto più emotivo guardando certe immagini. Ad esempio vedendo un film in cui un uomo mentre cammina si sente i battini del cuore mi sento emozionato".
Ti dà fastidio che girino tanto questi tuoi video? "No, non mi dà fastidio. Inizialmente pensavo 'che figura di...' Mi sono sentito vulnerabile, non era mai successo. Lo sport è la prima cosa che pone i bambini davanti certe responsabilità, relazionarsi con i compagni. Ti fa diventare adulto. Non poterlo praticare per un ragazzo genera una mancanza. Lo sport mi ha dato anche educazione, valore e rispetto. Non poterlo fare mi fa sentire anche in dubbio su me stesso. Mi chiedo se la versione di Edoardo che non fa sport vada bene o no".
Hai cominciato subito a giocare a calcio? "Subito, 4-5 anni, facevo calcio, tennis, nuovo. Tuttora non riesco a stare fermo, è iperattivo. Ero uno a cui piaceva stare in gruppo, esultare con la squadra, condividere qualcosa anche ora mi manca. Io seguo i miei compagni ovunque, in panchina, ma soprattutto quando si perde e si fa male non è la stessa cosa. Vorrei condividere con loro anche il dolore di una sconfitta e non posso farlo allo stesso modo. Ci tengo, ma non come se l'avessi persa anche io in campo quella partita. Questo fa capire come io sia incline a viverla insieme. Nel tennis vinci e perdi da solo".
Cosa ricordi della partita con l'Inter? "Io ricordo anche le azioni che sono successe in quel quarto d'ora. Poi ricordo che quando hanno annullato il gol a Lautaro mi sentivo che girava un po' la testa, ma il cuore non lo sentivo che andava fortissimo. Zero. Il giramento di testa ricordo di aver pensato che fosse dovuto all'alimentazione. Al petto non sentivo nessun dolore. Mi girava la testa e allora mi sono accasciato facendo finta di allacciarmi gli scarpini, perché non stavo bene e cercavo di capire. Secondo me ho fatto peggio ad abbassarmi. E quando mi sono rialzato sono andato giù. Ma al petto non ho sentito assolutamente nulla. Per ogni persona è differente. Mi sono risvegliato senza neanche ricordare il viaggio in ospedale, o qualche flash. Infatti mi sono subito toccato le gambe, la testa, pensavo di aver fatto un incidente. In ambulanza mi hanno detto che ho fatto un bel casino. Dopo che mi hanno rianimato ero in shock, cercavo di mordere tutti, ero indemoniato ma non ricordo niente. Le prime persone che ricordo fisicamente erano il mister, il direttore generale della Fiorentina, non i miei familiari che pure sono stati i primi a vedermi. Ma ero cosciente".
C'erano persone che per fortuna sapevano cosa fare salvandoti la vita. "Magari uno ha dei problemi specifici, ma tralasciando quello è una cosa elettrica. Il cuore si ferma, è un cortocircuito. Siamo tutti dipendenti da chi ci cammina accanto. Se succede ad una persona per strada e si ritrova accanto ad uno che sa praticare un intervento di primo soccorso ti salvi. I defibrillatori sono importantissimi, servono, è uno strumento che aiuta a intervenire. Sono grato per come è andata, mi trovavo nel posto giusto al momento giusto, i dottori mi hanno detto che mi sarebbe potuto capitare in qualsiasi momento. Una giornata è lunga, una settimana. A me è accaduto in partita. Queste sono quelle dinamiche che mi fanno sentire davvero fortunato. La parte umana ed emotiva è importante".
Cosa ti hanno detto i medici? "All'inizio sono stati molto negativi. Preferisco sempre sapere la verità, poi sta a me reagire. Poi con i vari esami si è capito meglio, ma quando ti danno delle notizie ti crolla il mondo addosso. All'inizio c'è stato un tentativo di capire cosa fosse successo, ma i medici mi hanno detto che la cosa migliore sarebbe stata impiantare questo salva vita, che era la cosa migliore per stare tranquilli tutti, dandomi tante garanzie. Mi hanno spiegato com'è la vita col defibrillatore. All'inizio l'ho un po' sottovalutata, dicevo 'che sarà mai, è una macchinetta'. Invece la sento, sento che c'è qualcosa dentro. Ora ci sto imparando a convivere: quando dormo su un determinato lato o faccio certi movimenti lo sento. Anche all'aeroporto mi è capitato, a parte la corsia preferenziale che mi permette di saltare la fila (ride, ndr). Ho anche un tesserino. In Europa mi hanno chiesto di alzare la maglietta all'aeroporto, quella cosa mi è rimasta. Ero con un mio amico, eravamo gasati per aver saltato la fila. Gli dicevo che non potevo passare sotto al metal detector, perché il campo magnetico può entrare in conflitto col defibrillatore. Poi ti toccano, ti perquisiscono, ti senti un po' violato. Dovrò cambiare la batteria ogni otto anni, che ti devono aprire. Ora devo solo fare i dorsali a destra per pareggiare (ride, ndr)".
Sul giocare col defibrillatore in Italia. "È un argomento che sto tutt'ora approfondendo. Stiamo cercando di capire. Non è che il defibrillatore non ti consente di avere un certificato medico agonistico, è solo in alcuni tipi di sport, non di contatto. Dipende dal certificato. La legge italiana non permette di giocare a calcio con il defibrillatore, anche con la nazionale maggiore. Si tratta di una legge, non di una questione medica".
Terrai quindi il defibrillatore? Puoi decidere? "Nel futuro dovrò fare delle visite importanti che mi diranno se ci sarà una possibilità di toglierlo e, in caso, cosa dovrei fare. Non mi precludo niente, anzi. Poi conta anche la salute mentale, la cosa più importante, perché se io non mi sentissi sicuro senza defibrillatore... Poi ognuno fa le sue considerazioni. È pesare cosa è per te il vivere. Quando avevi 15 anni era diverso".
Sull'aspetto emotivo che può incidere. "Ci chiediamo cosa voglia dire l'aspetto emotivo. Quella partita non era particolarmente speciale, era importante ma io in quel momento stavo facendo il mio lavoro, non avevo un'ansia particolare. Allora ti chiedi se il tuo corpo ti sta mandando un messaggio, un segnale. Poi quando succedono queste cose, al di là del motivo medico perché succede in determinate occasioni o in altre? Io poi non ho mai avuto avvisaglie, niente".
Cosa ti hanno riscontrato ufficialmente? "Non c'è stata una diagnosi vera e propria. È quasi peggio per me. Perché è un momento di reale instabilità, un giorno devo smettere di giocare a calcio, l'altro posso tornare in Italia. La speranza è quello che porta tutti a viverla in un determinato modo. Un giorno ti dicono una cosa, quello dopo un'altra. Così è difficile. Così vivi di alti e bassi, un giorno sto bene e l'altro arriva un risultato di una visita. È la quotidianità, e devi trovare il tuo equilibrio. Non c'è ancora nulla di definito quindi e questo mi fa ben sperare nel futuro. Ma so quello che è accaduto. È successo in un'età in cui mi sento tutta l'energia del mondo, mi sento un supereroe, ma non ho 15 anni e un po' di esperienza l'ho avuta. Ma non ho 35 anni, è un'età di mezzo che se non sono bravo a gestire rischio di farmi trasportare dalle situazioni. Quando nasci con una strada segnata, io sono stato fortunatissimo, i miei non mi hanno fatto mai mancare nulla. Mi è andato sempre tutto bene, senza intoppi. Ora sto vivendo come un ragazzo di 23 anni che non ha trovato la sua strada. E questo mi spaventa, perché non so se potrò tornare a giocare a calcio. Era la mia strada, dritta, non ho dovuto mai organizzarmi una giornata. Ora sto iniziando a vivere, è una vita totalmente differente. È bello perché ho più libertà, ma sento di non essere l'Edoardo di prima. Si tratta anche di una ricerca di me stesso".
Se ti dicessero che puoi giocare all'estero andresti? "Io proverò a ricominciare, per tutti i sacrifici fatti, lo devo a me e tutte le persone che mi vogliono bene. Poi analizzerò se sto bene, se sto tranquillo. Ma non mi sentirei di mollare, anche perché ho 23 anni. Poi la salute è la prima cosa".
Hai sentito Eriksen? "Lui è stato molto carino, mi ha mostrato subito la sua vicinanza. C'è una vicinanza per quello che uno vive. Io ho una certa empatia anche nei tuoi confronti, è normale come cosa. Mi ha dato un consiglio, mi ha detto che la prima cosa è stare tranquillo, riposarmi, stare con la famiglia e fare tutte le visite del caso, è quello che conta".
Sui familiari. "Questo è il tasto dolente, quello che mi ha destabilizzato un po'. Sono stato abituato a vivere delle pressioni mediatiche e mi reputo abbastanza forte. Quando vedi i tuoi cari in difficoltà ti senti impotente ed è la cosa che più mi ha fatto male. Sono uscite tante notizie, molte non vere. Quando ero in ospedale ognuno cercava di dire la sua, trovare una risposta a quello che era successo, minando la tranquillità dei miei. Io sono più che abituato, essendo un personaggio pubblico, ma le persone accanto a me no. Quelle non me le devi toccare. Questo mi ha fatto male, non potevo fare nulla per aiutare, soprattutto stando in ospedale. Ora la stanno vivendo anche loro in maniera un po' pesante, hanno rischiato di perdere un figlio. Io non sono padre, non so cosa significhi ma come li ho visti in quel periodo e tuttora vedo degli strascichi dovuti a quello che è successo. So quanto hanno fatto tutti per me, sono riusciti in questo momento difficile per me a darmi tutto, anche se stavano vivendo un momento critico anche loro. Consigli non me ne hanno dati, è lo starci. Io l'ho affrontato con grande maturità, forse anche troppa, mi dovevo sentire più 'bambino'. Mi è arrivata dopo la tristezza, è parte di un processo. I miei genitori questa tristezza l'hanno avuta subito. Tutti erano allo stadio per fortuna, solo mia nonna non c'era e l'hanno chiamata dopo. Immagino se fossero stati a casa, almeno hanno visto dove ero e dove stavo andando. Un mio amico ha pure scavalcato entrando in campo. La cosa critica è stata la notte, non sapevano come mi sarei svegliato, se ci fossero danni cerebrali, se avrebbero riavuto Edoardo. Ed è un percorso che stanno facendo anche loro per recuperare da quello che è successo".
Sull'impatto che ha avuto la vicenda sugli italiani. "Banalmente andando in giro per strada, mi fermava la gente, anche tifosi della Lazio. Chiunque. Ho sentito la vicinanza di tutti, a prescindere da bandiere e squadre. Questo mi ha fatto vedere la cosa che mi piace di più del calcio, la parte genuina. C'è tutta una struttura nel calcio, ma siamo tutte persone, c'è il prato verde. Il lato umano del calciatore è importante, a volte vengono tralasciate".
Le cose non accadono mai per caso... "Anche io sono di questa idea. Mi sono arrivati tanti messaggi di persone che hanno vissuto casi simili. L'altra volta ero in chiamata con un bambino, la cosa che volevo fargli capire - e lo penso realmente - che certe cose succedono a chi ha la chiave per reagire e hanno la forza per farlo. Altrimenti non riesco a rispondere alla domanda del perché sia successo a me. Succedono alle persone che hanno le qualità per uscirne. E sto cercando di condividere proprio quello che vivo, per ridare indietro l'affetto che ho ricevuto. Perché è merito di questo affetto se la sto vivendo così, parlarne fa bene. Anche a me parlare di queste cose mi fa sentire più leggero. E non è facile farlo perché ti scopri".
Hai pensato di farti aiutare? "Io ho sempre fatto un percorso con un mental coach, lo fanno in tanti ed è giusto così. La testa è la più grande qualità che uno sportivo deve allenare. Sono contento sia in rapida progressione questo sviluppo. Io mi sono sempre fatto aiutare, ora a maggior ragione sto facendo un tipo di analisi su me stesso che è davvero faticoso. Non puoi mentire a te stesso, quindi non scappi da certi pensieri. E durante la vita che abbiamo così frenetica la maggior parte delle volte non riusciamo ad avere il tempo per fermarci a pensare a cosa stiamo vivendo. Se la fai ti fa fare uno step di crescita. Sono convinto che questa cosa che mi è accaduta sarà uno degli snodi della vita che mi farà crescere più di tutti.
Il momento più difficile? "L'idea di smettere di giocare a calcio per me è non è concepibile. Come faccio? Poi ci sono una serie di cose dietro, attorno. Banalmente è stato quel pensiero, nient'altro. La mia vita è sempre girata attorno a quello, te lo levano così. Io so chi è Edoardo con il calcio, ma senza… Non ti dico che ho paura di scoprirlo, ma ho paura che non mi piaccia, che non piaccia alla mia fidanzata o alla mia famiglia. Perché magari è la versione di me che non vorrei".
Chi ti è venuto a trovare all'ospedale? "Un po' tutti i compagni, alcuni della Roma e della Fiorentina, amici stretti, anche per farmi compagnia e farmi svagare un po'. Anche se sinceramente non volevo vedere nessuno. Era una situazione per cui non volevo che le persone mi vedessero in quelle condizioni. La faccia era 'poverino per quello che gli è successo', magari non volendo. Poi magari ci siamo anche divertiti, chi ha portato il McDonald's in ospedale, chi è venuto e non è riuscito a dire neanche una parola. Non sapeva che dire. Poi io facevo le battute, gli dicevo 'almeno parlami'. Questo è un altro aspetto".
Sulla Fiorentina. "I miei compagni hanno vissuto un momento, delle immagini e sensazioni, che mi hanno detto non si toglieranno più dalla testa. La squadra ha iniziato a perdere le partite, rimangono certe cose nella testsa di una persona. A certi livelli la voglia di vincere fa la differenza, ma se per te la cosa più importante a fine partita è che tutti stiano bene, e non vincere, allora abbassi la mentalità che a certi livelli paghi. Un po' sono convinto che abbia condizionato i miei compagni in campo. E anche a me faceva un male... Non potevo aiutarli. So quello che hanno vissuto, ne abbiamo parlato".
Cosa hai provato al ritorno al Viola Park? "Avevo già visto tutti in videochiamata. Ho provato gioia, ma anche una tristezza... Io non volevo applausi, non volevo foto o video. Hanno fatto lo striscione. Io volevo solo tornare lì come se non fosse successo niente. Non era possibile e quindi un po' di tristezza ti arriva. Quel giorno però è stato molto carico emotivamente. Ci sono immagini, sensazioni, robe passate che hai vissuto. Per esempio quando sono tornato all'Olimpico, una serie di cose che ti fanno emozionare. La mia sensibilità è aumentata. A me piacciono le persone sensibili, hanno una marcia in più ma è diverso..."
C'è qualche giocatore che ti ha stupito per un messaggio o altro? "Non mi aspettavo niente. Anzi devo ringraziare anche i giocatori dell'Inter per come si sono comportati. C'è stata talmente tanta comprensione della situazione, di tutto il mondo del calcio, che non me lo aspettavo. Era tutto studiato per il mio bene. Ho sentito tanti ragazzi che giocavano con me alla Roma. Poi nel calcio la cosa più bella, che rimane, sono i rapporti umani che restano e ti porti per tutta la vita, che vanno oltre la squadra. In campo sei il mio peggior nemico, ma fuori ci sono relazioni che rimangono. E mi hanno fatto piacere questi gesti di affetto. Sentivo, non dico di non meritarli, però pensavo 'almeno sei rimasto'".
Quando hai capito che il calcio sarebbe stato il tuo lavoro? "Alla fine del mio percorso, alla fine dell'under 17, io sono diventato calciatore perché non avevo la pressione di diventarlo. Poi arriva un momento in cui devi spingere e dare tutto, l'ho sempre fatto come divertimento, serio. Quando faccio una cosa la faccio con tutte me stesso come se fosse la cosa più importante del mondo. Poi ho capito che poteva essere il mio lavoro. Infatti uno dei giorni più importanti è stato scoprire di far parte della prima squadra della Roma: dopo tutto il percorso, 13 anni di settori giovanili, ho capito di avercela fatta a trasformare quello che mi piace nel mio lavoro. L'esordio? Avevo 18 anni. Ho esordito col Covid e lo stadio vuoto. Sai che è il raggiungimento di qualcosa, ma sai anche che è un punto di partenza. Ti godi l'arrivo ma sai che devi fare sul serio. E quello ti porta nel mondo dei grandi. I calciatori si trovano a dover crescere prima rispetto agli altri. Si chiedono perché facciano famiglia e figli presto, devi sottostare a certe pressioni e responsabilità, ci sono persone più grandi di te nello spogliatoio. E quello che affronti ti serve anche per il lavoro, quando torni a casa dopo una partita con una famiglia che ti aspetta è sempre bellissimo. Anche quello è un punto di partenza per la tua vita".
I senatori che ti hanno dato il benvenuto? "Mancini, Pellegrini, Cristante e Dybala, tutti giocatori di spessore incredibile, ognuno a modo suo, come vuole. A volte è anche difficile relazionarsi, sei un po' il giovanotto che deve farsi strada, c'è un po' di nonnismo. Accade in ogni ambiente lavorativo. Poi il calcio ti fa guadagnare e ti dà visibilità, ma per relazioni con compagni, capi e altri, sono simili ad altri ambienti lavorativi. Mi raccontano dinamiche in altri lavori e gli dico che è lo stesso che accade nello spogliatoio. Le persone vedono il calciatore in tv, il personaggio pubblico, si fanno la loro idea su un calciatore o magari credono quasi di conoscerlo. Le prime impressioni le abbiamo tutte su chiunque. Però è molto più semplice di come si pensi. mi hanno dato tanti consigli all'inizio. Ma penso sia ciò che succede in ogni ambiente lavorativo. Le dinamiche di uno spogliatoio sono molto più semplici di quanto uno pensi".
Sulla vicenda della ludopatia. "Il calciatore ha tempo libero durante la giornata, l'allenamento ne occupa mezza e per l'altra metà hai da dedicare a te stessa. I calciatori sono abituati a certe emozioni forti, a me piace quell'ansietta positiva, ci sto bene. Avendo tempo la va magari a ricercare in altre cose e ti discostano da quello che fai. E magari diventano cose gravi che ti rendono dipendente. Posso immaginare cosa provano, è una questione di emozioni, di sentirsi vivi".
Sul rapporto con gli allenatori. "Sono quasi dei maestri di vita, se ti trasmettono certi valori cresci quasi di più rispetto alla scuola. Ti relazioni con compagni e allenatori, ti prendi delle responsabilità, come calciare un rigore quando hai 7 anni. È un gesto che ti mette alla prova, gli allenatori quindi sono stati sempre fondamentali per il mio percorso di crescita. E sono stato fortunato alla Roma. Ho avuto sia Alberto De Rossi in Primavera per due anni e mezzo che poi Daniele".
Hai avvertito il 'gene'? "Per me Daniele è molto portato per fare l'allenatore, sono convinto farà una grande carriera. Mi ha dato tanti consigli da centrocampisti, ho apprezzato molto di più quei consigli rispetto a quelli di un allenatore che ha appena iniziato a fare questo mestiere su cui ha molto da imparare. Mi ha dato consigli su come muovermi, come stare in campo. Ci teneva molto. Sì certo che si è fatto sentire, ci mancherebbe".
Sulla fidanzata. "Ci siamo conosciuti a scuola, eravamo in classe insieme. Inizialmente è stata la persona che mi calmava, mi mettevano vicino a lei perché mi vergognavo a fare casino con lei vicino. Lei in questo periodo è stata la mia roccia, la mia ancora. Anche lei non ha vissuto un momento facile, già viveva un momento difficile suo per motivi personali e in più mi ci sono messo anche io. Sono davvero grato di come siano andate le cose e avere una persona che mi ha fatto sentire vivo nel ricominciare questo percorso. Mi ha dato tanto".
Ti dà fastidio il defibrillatore? "Toccarlo mi dà fastidio sì, sento che si muove. Mi posso allenare sì, ma non nel centro sportivo della Fiorentina. Sto giocando un po' a tennis, la mia passione, mi attacco a questo. Giocando a tennis ritorno a quello che ero io in passato e mi fa ricordare che magari sono anche questo, quando ho dei dubbi. Da quando avevo smesso non ho più toccato una racchetta, erano otto anni che non giocavo. Cobolli mi ha mandato tutto, le borse, le racchette, il completino. Anche lui ha una storia incredibile, giocava con me alla Roma, figlio di tennista. Siamo arrivati allo stesso punto, dovevamo scegliere tra calcio e tennis. Lui è 40 del mondo e io sono arrivato in Serie A. Non sono ancora riuscito a giocarci contro perché è in America. Un annetto fa avevamo fatto qualche scambio".
Sul futuro. "Sarà in base a quello che mi dicono e quello che sceglierò io. Vedremo con la Fiorentina, non dico che decideremo insieme perché spetta a me, ma devo ringraziarli visto quanto hanno fatto in questo periodo. Non mi hanno fatto mai mancare niente. Io ora sto lì, in vacanza, loro invece continuano a pagarmi e non è banale".
Su Astori. "Il caso mio è stato vissuto da Firenze con una maggiore enfasi ed empatia proprio per quello che era successo a Davide. Tutti hanno rivissuto quei momenti e questo ha dato più potere alla vicenda. Proprio per quello mi sono sentito davvero fortunato. Tanti vogliono pensare che lui da lassù mi abbia fatto restare qui. E me lo dicono tanti anche all'interno della Fiorentina e mi piace pensarlo. Io non ho avuto la fortuna di conoscere la famiglia, la moglie, né lui. All'interno del Viola Park Davide è sempre presente, tutti mi hanno detto che mi sono perso, a Roma e Firenze me ne hanno parlato tutti. Questo caso mi ha fatto pensare, abbiamo l'ospedale in comune".
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