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Salutando disse: “Ho paura”. Adesso sappiamo perché… Aspettative, dubbi e veleni hanno divorato l’ultimo re

LaPresse

Il rapporto con Baldini e Spalletti, i tifosi e le difficoltà da manager: c'è tutto questo dietro l'addio

Redazione

Il mondo ha denti d’acciaio, il sorriso ingannatore e il pugnale dietro la schiena. E se questa verità malinconica ognuno di noi la vive ben presto sulla propria pelle, se ti chiami Francesco Totti arrivi a scoprirla quando il tempo comincia a rubarti il respiro. Dietro l’addio alla Roma, in fondo, c’è anche questo. Trent’anni d’amore, vissuti nell’adorazione laica di una città, sono stati un anestetico formidabile verso il male di vivere che alla fine, in qualche maniera, cresce fino a presentarti il conto. Il capitano di una generazione, d’altronde, aveva iniziato a capirlo quando la sua parabola calcistica stava giungendo alla conclusione. Il tramonto della sua carriera di artista del calcio, sublimato in quell’addio che ha fatto il giro del mondo, lo aveva fiaccato nell’anima per quello che certificava: il senso della fine e la necessità di un rito di passaggio. Totti infatti due anni fa, in uno dei momenti più struggenti del suo discorso alla gente, lo aveva detto chiaramente: "Adesso ho paura". Niente poteva essere più sincero, niente poteva rendercelo più fratello. Chissà quante volte Francesco avrà riattraversato quella linea d’ombra che lo riportava con la memoria ai giorni del calcio giocato, riporta "La Gazzetta dello Sport". Belli a prescindere, perché i problemi si risolvevano con un assist, un tacco, un tiro che scuoteva la rete e l’anima della città. Quello che a quasi tutti era impossibile, al Capitano veniva naturale. Niente a che vedere con ciò che è venuto subito dopo. Che fare? Un corso da allenatore? Sì, no, magari più tardi. Da direttore sportivo? Più avanti. E l’inglese che serve per parlare col mondo del calcio fuori dalle Alpi? Verrà anche quello. Il problema è che nella vita ciò che non afferri, viene preso da altri. Gli uomini in grigio (copyright Ranieri), quelli che sanno far di conto, hanno conoscenze giuste, fanno un passo indietro e uno di lato.

Non è escluso che abbia peccato d’ingenuità, credendo davvero che sarebbe bastato indicare la bravura o meno di un calciatore - come se fosse uno scout di alto livello - per materializzare un percorso da direttore tecnico. Non è andata così, e persino i suoi stessi tifosi non hanno mai avuto certezze sulla sua grandezza da manager, anche se tutti di sicuro hanno pensato: visti i risultati degli altri, almeno lasciate provare lui. Quel giorno non è mai arrivato. Come nel "Ritratto di Dorian Gray" ad un certo punto Totti deve essersi guardato allo specchio scoprendo di essere diventato ciò che aveva sempre detto di non voler essere: solo una bandiera buona da sventolare ai sorteggi e in tv. Troppo poco per uno che voleva essere grande con la Roma, scoprendo però che, se da calciatore almeno conosceva la strada, da dirigente avrebbe dovuto impararla. Se è vero che gli eroi muoiono tutti giovani, forse la gioventù di Francesco termina davvero solo adesso.