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Il dribbling infinito di Bruno Conti

Il dribbling infinito di Bruno Conti - immagine 1
"Meno tattica e più tecnica e fondamentali per far crescere i giovani"
Redazione

Bruno Conti, sessantotto anni per lo più vissuti a dribblare la vita, è un eterno ragazzo cresciuto in fretta a palle, palloni, la Roma e famiglia, scrive Antonello Sette su Il Foglio. Ammesso e non concesso che fra la Roma e la famiglia si possa, nel suo caso, tracciare una distinzione netta.

"Alla Roma mi ha portato Antonio Trebiciani, l'allenatore della Primavera, che mi aveva visto giocare l'estate prima a Nettuno in uno dei tornei del bar. Prima avevo già fatto un provino, mi era ritrovato al cospetto di Helenio Herrera, sì proprio lui, che mi bocciò senza pensarci due volte. Disse al mio accompagnatore, il presidente dell'Anzio, che ero tecnicamente dotato, ma non avevo il fisico per giocare a pallone. Per farla breve, ero troppo basso per il calcio. Non me la presi più di tanto. In fondo anch'io pensavo che non sarei mai diventato un professionista di livello. Per me, che ero cresciuto in mezzo alla strada, in una famiglia con sette figli, il calcio era, prima di qualsiasi retropensiero, evasione e divertimento. Non me la presi più di tanto neppure quando mi bocciarono di nuovo ad un provino a Bologna. La tiritera era sempre la stessa. La mia prima volta in serie A è stata il 10 febbraio 1974. La partita era Roma-Torino. L'allenatore Nils Liedholm. L'anno dopo mi diedero in prestito per farmi, come si diceva allora, le ossa, al Genoa, dove sono rimasto un anno in più, come parziale contropartita dello sbarco nella capitale di Roberto Pruzzo. A volermi a tutti i costi al Genoa era stato Gigi Simoni, peraltro pesantemente criticato per aver scelto di affidarsi a un ragazzino nell'anno della improcrastinabile scalata alla serie A. Fini che la squadra conquistò la promozione e io il premio come migliore calciatore della serie B".

Dopo il ritorno con un anno di ritardo, fu Roma per sempre...

"Mi ritrovai da subito in una squadra, destinata, da lì a qualche anno, a scrivere una delle pagine più esaltanti dell'intera storia della Roma. Furono Liedholm e il presidente Dino Viola a creare, pezzo dopo pezzo, una squadra che avrebbe vinto lo scudetto, dopo quaranta anni di attesa, e sfiorato la conquista della Coppa dei Campioni, da Ancelotti a Herbert Prohaska, da Di Bartolomei a Sebino Nela, da Ciccio Graziani a Paulo Roberto Falcao e a tutti gli altri grandi campioni".

Prima dello scudetto con la Roma era arrivato il campionato del mondo vinto in Spagna nel 1982...

"È stata un'impresa meravigliosa e, per tanti versi, irripetibile. Ci sentiamo tutti i giorni. No, non ho un preferito. Se si parla di gruppo, non è un una parola gettata a caso. Anche quando si era creata una rivalità e, quindi, una tensione palpabile fra la Juventus e la Roma, che era arrivata così in alto da insediarne la leadership, all'interno della nazionale il rapporto con gli juventini non ne risentiva in nessun modo".

L'anno dopo, quello fatidico dello scudetto, non si vide il vero Bruno Conti...

"Le scorie della cavalcata mondiale si fecero sentire. L'anno dopo, però, perdere la Coppa all'Olimpico, in uno stadio stracolmo di tifosi e di bandiere e, per di più, ai calci di rigori, dove purtroppo sono stato uno dei due a sbagliare, è stato, un colpo al cuore". 

Lo vorrebbe ritirare quel rigore, magari in Paradiso, con Bruce Grobbelaar che questa volta raccoglie mestamente il pallone in fondo alla rete, come ha auspicato il suo emulo nell'errore Ciccio Graziani?

"Chi non vorrebbe ritirare un rigore calciato maldestramente, che ha impedito la più grande festa di tutta la storia di Roma calcistica. E a non buttarla dentro sei proprio tu, che quella squadra avevi da sempre sentito tua. Non ero un rigorista. Alcuni di quelli veri, come Aldo Maldera e Pruzzo, non erano fra gli undici che hanno finito la partita. Ho tirato. Ho sbagliato. Succede, ma non doveva succedere proprio allora e proprio a me. Alcuni giornalisti scrissero che nessun calciatore al mondo aveva mai vinto, in tre anni consecutivi, un campionato del mondo, uno scudetto e una Coppa dei Campioni. Quel triplete mancato, che sarebbe stato archiviato come un unicum irripetibile, ancora un po' mi brucia, ma il calcio è questo. Ci sono anche le sconfitte e bisogna andare, e io sono andato, avanti".

Le piace il calcio di oggi?

"È diventato un altro calcio. Oggi si affidano ai software e preparano le partite a tavolino. Si predilige la tattica, a scapito della tecnica individuale. Mi auguro che si possa voltare pagina e ricominciare da capo. Il calcio non deve essere una scienza, più o meno esatta. C'è bisogno, soprattutto nei vivai e a livello giovanile, che si torni a insegnare i fondamentali del gioco del calcio. A volte vedi delle partite che annoiano, perché è tutta pretesa di tattica e poca tecnica e, tanto meno, fantasia. Bisogna riscoprire talenti, partendo dalla base, senza quei software, che molto spesso nascondono l'incapacità di insegnare a giocare a pallone".

 

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