rassegna stampa

Falcao: “Roma e la Roma i miei amori infiniti. Totti da Pallone d’Oro”

(Corriere dello Sport – F.M.Splendore) Verrebbero da dire tante cose: estate 1980, la corsa in macchina a Fiumicino, il giorno dell’arrivo a Roma,

Redazione

(Corriere dello Sport - F.M.Splendore)Verrebbero da dire tante cose: estate 1980, la corsa in macchina a Fiumicino, il giorno dell’arrivo a Roma, quel gesto dall’auto avanti a noi, quando ormai la folla è svanita e siamo soli... «Venite, facciamo le foto». No, non è vero. Sì, è vero, verissimo. E’ Falcao e siamo soli, con lui: Alberto ed io. I riccioli biondi tradiscono già una calvizie appena accennata. La classe, la leadership, sono ancora tutte da scoprire. E quando le scopriremo sarà gioia scudetto immensa. E poi sarà dolore Coppacampioni atroce: che averle cambiato il nome in Champions League non può servire a fartelo passare. Trent’anni dopo il telefono squilla: da Roma, Corriere dello Sport, a Porto Alegre, casa Falcao. «Ma glielo hai detto che noi eravamo quelli che...?». Ma no che non l’ho detto... Auguri in ritardo, Divino!

Una festa per Roma e la Roma. Falcao, ci racconta il perché?

«E’ il mio grazie a una città e a una squadra che mi hanno stregato. Per sempre. Era una cosa che sentivo, avrei dovuto farla a Roma, sull’Appia Antica: poi un amico brasiliano molto caro ha avuto un problema molto importante e non sarebbe potuto venire. Per rispetto ho spostato tutto a Porto Alegre. E ho portato in Brasile Roma e la Roma: nei colori, nei sapori, nelle immagini, dal calcio ai grandi monumenti. L’ho voluta così. Quando arriva il dia redondo devi fare qualcosa di importante».

Un’immagine di Roma che si è portato via, per sempre?

«Potrei dire il Colosseo, l’Aventino, il Foro Romano, Circo Massimo numero 7, la sede... E invece ti dico il 10 febbraio 2002: Olimpico pieno per Roma-Juve. La Roma del mio amico Fabio Capello ha vinto lo scudetto da otto mesi, quello dell’83 è diventato storia. Bene, in ottantamila si alzano e gridano il coro Falcao Falcao per qualche minuto interminabile. Vent’anni dopo! Straordinario».

A proposito di scudetti... La Roma di Garcia?

«L’ho vista con la Lazio. E ho saputo del 3-0 a Milano con l’Inter che non è mai un risultato facile. Seguo tutto, l’avvio di stagione è stato straordinario. Fantastico, direi».

E inatteso...

«Sono quelle le cose più belle. Chi pensava che Viola avrebbe aperto un ciclo scudetto negli Anni Ottanta? E guardate che quello scudetto è stato il più faticato: intanto, se non ci fosse stato lo scandalo del gol di Turone di scudetti ne avremmo vinti almeno due. E poi quella era una Roma in cui gli acquisti eravamo io e Superchi. Quella del 2001 e questa sono due squadre diverse, costruite a suon di acquisti».

Quella di Garcia lo scudetto può vincerlo?

«Gli scudetti si vincono dentro gli spogliatoi. E non si vincono a novembre. Siamo all’inizio, è presto. Ma certo la Roma ha fatto finora qualcosa di straordinario. E poi con un Totti così...».

Da Pallone d’Oro? Pare che se non vinci a livello internazionale non lo prendi...

«Quando giocavo io non lo prendevano i sudamericani: una legge strana... Comunque Totti non è un costruttore di gioco, è essenzialmente un finalizzatore. Voglio dire che non ha un ruolo in campo per cui non puoi dargli tutta la responsabilità di non essere riuscito a portare la squadra in alto in Europa. Ma come finalizzatore è straordinario, tra i migliori in assoluto. E quindi da Pallone d’Oro. Ha avuto rivali altrettanto forti a livello internazionale, questo sì».

Ma questa Roma e la sua, si somigliano?

«Trent’anni dopo non puoi fare similitudini».

Però le linee mediane erano e sono le migliori: Prohaska-Falcao-Ancelotti, Pjanic-De Rossi-Strootman.

«Noi in più avevamo Agostino. E’ un altro calcio, imparagonabile».

La sua ultima partita con la Roma è stata contro il Napoli il 16 dicembre 1984: e ha segnato. E ora la sfida per lo scudetto dice Roma-Napoli. Un segno del destino che riaggancia il passato al presente?

«Come me lo ricordo quel gol: mi dà palla Conti, fingo di stopparla, la do a Cerezo, me la ridà e a quel punto stoppo di destro e tiro di sinistro. Roma-Napoli per lo scudetto? Sarebbe proprio bello che se lo giocassero due squadre del sud calcistico d’Italia».

Alla penultima, Genoa-Roma, l’ufficialità dello scudetto e all’ultima, Roma-Torino, la festa: questo campionato finirà a campi invertiti, Roma-Juve alla penultima e Genoa-Roma all’ultima: a tutta cabala... Serve anche questo?

«Serve a caricare l’ambiente questo va bene. Ma tutto questo dallo spogliatoio dovrà restare fuori. La Roma deve vincere a maggio. Pruzzo disse una battuta bellissima: “Ci voleva l’anno santo per farci vincere lo scudetto”. Ma lo disse dopo: non costruimmo la vittoria su questa speranza. In questo la Roma, con Garcia, mi sembra aver trovato la quadratura mentale giusta. Mi piace Garcia, ha equilibrio, ha dato forza alla squadra».

L’eliminazione dal Mondiale in Spagna, dopo Italia-Brasile 3-2 il 5 luglio 1982 a Barcellona, e la finale di Coppacampioni con il Liverpool il 30 maggio 1984. Uno dei due dolori è più grande?

«Sono uguali. Ma non sono gli unici. Ho perso anche una finale di Coppa Libertadores e mi hanno tolto lo scudetto di Turone. Però io ho sempre pensato una cosa: nel calcio devi essere ricordato per aver lasciato un segno. Il mio fratello Bruno Conti, in un servizio, ha detto che io portai a Roma la mentalità vincente. Questo mi dà gioia».

Il suo calcio e quello di Liedholm si somigliavano molto. Che sintonia tra voi...

«Ci sono quatto modi di vivere il calcio: giocare bene e vincere, giocare bene e perdere, giocare male e vincere, giocare male e perdere. Io sono per il primo e anche Liedholm lo era. Un vocabolo da noi è la firula, il gesto tecnico fine a se stesso. Ecco, quello non serve. C’è un quinto modo, affascinante come il primo: giocare per fare la storia, come l’Olanda del 1974 o il Brasile del 1982».

Liedholm. Ne parliamo?

«Straordinario. Sprovvisto di vanità. Un leader flemmatico, molto dolce, ma duro quando serviva. E capace di sdrammatizzare tutto. Mi chiese che maglia volevo, gli dissi la 5 se non avessi creato problemi. Me la fece trovare nello spogliatoio. E’ la maglia che gli ho spedito con una lettera quando sono andato via: noi della Bilancia siamo così, riservati. Gli scrissi che preferivo evitare di vederlo perché ci saremmo commossi. Ci confrontavamo: dopo il primo tempo con il Dundee mi chiese perché non segnavamo e io gli risposi che ci serviva un’ala per allargare la loro difesa. Mise Chierico, passammo il turno e nel post-partita disse ai giornalisti che l’idea era stata mia. Ti rendi conto che persona? Mi costrinse a rispondere alla stessa domanda smentendolo e affermando che era lui quello che decideva tutto. Perché poi era così, il nostro era un confronto schietto».

E Viola?

«Rapporto da presidente a giocatore, ma io sentivo di piacergli come calciatore. Poi abbiamo avuto problemi, ma ci siamo chiariti, purtroppo alla fine della sua malattia. Era a Cortina e mi chiamò, il 10 gennaio 1991: mi disse che voleva offrirmi un biennale per allenare la Roma. C’era l’idea di vedersi: nove giorni dopo se ne è andato».

Ma la Roma l’ha mai più cercata?

«Non sono mai più stato vicino alla Roma come in quell’occasione. Non so perché, strano vero? Ma è così».

Nei festeggiamenti per il dia redondo vogliamo mettere la parola fine sul rigore in Coppacampioni?

«L’ho fatto tante volte: il ginocchio era a pezzi. Il resto sono favole. Abbiamo vinto una Coppa Italia con il Torino con un rigore battuto dal sottoscritto».

Arrivò a Roma e disse: «Andiamo oltre il derby». Questa Roma dopo aver patito la finale-derby di Coppa Italia del 26 maggio scorso, sembra aver scelto di risorgere, di affrancarsi.

«Il derby è importante per la gente e quindi un calciatore deve puntare a vincerlo per il rispetto del tifoso che se perde verrà preso in giro settimane intere. Ma poi la squadra più forte deve pensare ad altro. Io non capivo come una città del calibro di Roma non potesse avere due squadre forti. E ho avuto la fortuna di vivere nel momento in cui era la Roma la più forte. Anche questa Roma, ha vinto il derby ma ha altro da pensare: deve pensare allo scudetto».

Torna se la chiamano?

«Sono tornato... Ho portato Roma a Porto Alegre... (sorride). Non diciamo altro. Dovrei rispondere sì e sembrerebbe come propormi. Invece la Roma è forte così».

Paulo Roberto Falcao è questo: fa la cosa meno scontata nel modo più naturale. Come il 25 ottobre 1981, Roma-Fiorentina, un tacco volante a mettere la palla sulla testa di Pruzzo dalla linea del calcio d’angolo. Lo stadio venne giù dal visibilio, e lui: «Era l’unica cosa che potevo fare...».

Così, per parlare di questo circuito d’amore che si è creato tra lui, Roma e la Roma, potrebbe dire inspiegabile, incomprensibile...

E invece tira fuori il più dotto, il più ricercato dei tre termini. Sessanta anni e trenta da Divino. E’ stato il popolo giallorosso a cucirgli addosso questo e un altro appellativo, il più elevato che si potesse tra i... pagani: ottavo re di Roma. Sessanta anni: li ha compiuti mercoledì 16 ottobre e ha voluto dedicarli. Si fa così il dia redondo, quello che conta più degli altri perché segna i 30, i 40, i 50 anni e così via. La dedica è stata per Roma e la Roma: una grande festa a tema, che avrebbe dovuto svolgersi a Roma e invece si terrà a Porto Alegre. Sessanta anni, come un cerchio d’amore che si chiude, si risolve, disegnando una fede: un grande campione che sente di dover fare qualcosa per Roma e la Roma, che trent’anni lo hanno accolto facendosi accompagnare nell’ascesa verso la vittoria. Questo è Paulo Roberto Falcao, campione testa, cuore e gambe (gli avesse retto quel ginocchio...). «Era una cosa che sentivo, per ringraziare una città e una squadra da cui mi sono sentito cullato, adorato. Ci sono ragazzi di 18-20, che nemmeno mi hanno visto giocare ma so che si emozionano a sentire il mio nome e sanno tutto di me. Per questo ho voluto una festa in grande che avesse per tema Roma e la Roma. Dai colori, ai sapori, ai monumenti, alla squadra campione d’Italia. Ci sarà tanto di tutto questo».

L’invito alla festa che si è tenuta tra venerdì e sabato scorsi recita il proverbio romano più antico: «Tutte le strade portano a Roma».

Questa che ci ha riportato da lui, dal Divino, è una strada maestra. In un avvio di stagione che per la Roma ha sapori speciali, sentirlo parlare sembra come star lì a carpire ancora una volta il segreto per la via che porta alla vittoria. Quella che conta: quella al traguardo del 18 maggio 2014.