rassegna stampa

Campo Testaccio canzone di un mito

Chi ci va, lo sa.

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Chi ci va, lo sa. Lo stadio Olimpico si ripiega in un brusio, a una mezz’oretta dalla partita. A una mezz’ora da tutte le partite, meglio. L’avversario non conta. Il caldo o il freddo neppure. E’ sempre uguale. Si mescolano tensione, curiosità, eccitazione per quello che accadrà di lì in avanti. Anche un po’ di noia: quanto manca al fischio d’inizio? Ma poi si accende l’altoparlante, forte e chiaro, e la Curva Sud decolla in un coro di orgoglio da parata militare che funge da doping vocale: «Cor core acceso da 'na passione, undici atleti Roma chiamò...». Comincia così la canzone di Testaccio, dedicata agli eroi degli Anni 30, tramandata ai campioni dei tempi nostri. Testaccio, zona centro-sud della città, è rimasto il quartiere dei romanisti per eccellenza e tradizione.

Non poteva che nascere lì un simbolo imperituro dell’amore giallorosso. Ma dei versi romaneschi e delle gesta leggendarie parleremo dopo. Ora concentriamoci sul momento, sulle voci, sulle emozioni. Non c’è bisogno nemmeno di un display che suggerisce le parole come al karaoke. Le parole le sanno tutti. E a cantarle a memoria sono quasi tutti adolescenti, abituati ad artisti e calciatori contemporanei eppure precisi e concentrati nella partecipazione a un rito collettivo di matrice storica, per non dire epica. Da De Sanctis a Masetti, da De Rossi a Bernardini, da Volk a Totti il salto è enorme eppure istantaneo. Come può un ragazzo di 16 anni interessarsi al fascino di Campo Testaccio? Potere del passaparola. Potere del mito.

E’ nata da un passaparola la stessa canzone, che venne scritta nella sua versione originale nel 1931 da Toto Castellucci. Campo Testaccio, si chiama, proprio come lo stadiolo dove la Roma giocò dal 1929 al 1940. In pochi, tranne i testimoni diretti, ne conoscevano l’esistenza perché la registrazione del brano originale non è stata conservata. O magari non è mai stata neppure registrata, chissà: sarebbe quasi più affascinante se fosse così. Sta di fatto che un grande giornalista ha voluto riportarla alla luce: Sandro Ciotti.

Un bel giorno del 1980, con quella voce roca che ha infiammato decenni di radiocronache, ha contattato attraverso amici comuni il cantante Vittorio Lombardi, chiedendogli di incidere la canzone. Per agevolarne una rapida creazione, Ciotti si presentò poche ore dopo in un locale di Via Veneto con tre vecchi tifosi che conoscevano il testo alla perfezione. Entusiasta del progetto, Lombardi si mise subito al lavoro. Quasi in tempo reale. Ciotti accese il registratore portatile che usava per le interviste, un apparecchio rudimentale ma fidato, Lombardi partì con la musica. Quella versione “sporca”, con rumori di sottofondo e un suono leggermente disturbato, non è più stata modificata perché rendeva l’idea del nastro ingiallito dalla storia. Era come se fosse stata davvero recuperata dagli Anni 30, con tutte le meravigliose difficoltà che ogni oggetto d’antiquariato si porta dietro.

Lo splendido paradosso della Roma di Testaccio, la squadra celebrata dalla canzone, è che riuscì ad accendere er core del popolo senza mai vincere niente. Il primo scudetto sarebbe arrivato nel 1941/42, quando già la squadra si era spostata allo stadio Flaminio (all’epoca stadio del partito fascista). Ma fu lo spirito indistruttibile dei giocatori della Roma degli Anni 30 a conquistare il popolo: la lucidità di Masetti, «il primo portiere», l’agonismo di Attilio Ferraris, meglio conosciuto come Ferraris IV, «bravo nazionale e capitano», l’eleganza di Fulvio Bernardini e la potenza di Rodolfo Sciabbolone Volk crearono l’ossatura di un gruppo amatissimo, oltre che difficile da battere sul proprio campo: qui perse solo 26 partite su 214 («Nessuna squadra ce passerà...»), con uno storico 5-0 alla Juventus nel 1931 che ha ispirato un libro di Mario Soldati e anche un film. Sotto certi aspetti la Roma di Rudi Garcia ricorda la Roma di Testaccio: unita, grintosa, coraggiosa, non era la più forte, ma si dimostrò spesso la più tenace. Da qui il meccanismo di identificazione con i tifosi, stimolati anche da quelle tribune giallorosse da cui assistevano alle partite. I più fortunati pagavano il biglietto, dalle 5 alle 35 lire, i più scaltri scavalcavano le recinzioni quando il Daspo non esisteva e i teppisti da stadio nemmeno, tanti altri si appostavano sul vicino Monte dei Cocci, la vecchia discarica romana diventata collina, per cercare di intuire cosa stesse succedendo dentro.

Conclude così l'edizione odierna del Corriere dello Sport , il fatto che a Testaccio la Roma non abbia accumulato trofei non sminuisce i meriti tecnici e romantici di chi allora infiammò il core acceso dei tifosi. Semmai li accresce. E soprattutto aiuta a capire le priorità del romanismo e dei ragazzi che ancora adesso vanno in Curva Sud: vincere con la maglia della Roma conta tantissimo, ma amare la maglia della Roma conta molto di più.