Le grandi storie non sempre hanno un lieto fine, ma questo le rende indimenticabili e può essere un modo per dar vita ad un nuovo inizio. È ciò di cui ci si accorge parlando con uno dei calciatori più importanti che la Roma abbia avuto, Francesco Rocca. Era un ragazzo giovane, umile, abituato ad una vita come quella di molti altri ma con una determinazione tanto forte che lo portò, a soli 18 anni, ad entrare a far parte della rosa della squadra che da sempre aveva sognato e amato. È il 1972 quando il presidente Anzalone decide che da quel momento in poi Rocca sarebbe stato parte integrante della squadra comandata, a quei tempi, dal mago Herrera. Una grande soddisfazione, un sogno che diventava realtà, un inizio che portava con sé la prospettiva di un ottimo proseguimento.
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Rocca: “Fuori dal calcio non ci so stare”
"Hall of fame? Ci sono giocatori che hanno dato alla Roma molto più di me ma il popolo è sovrano, ha fatto la sua scelta e io non posso che ringraziarlo ed esserne felice"
Era tenace, si allenava con forte impegno e la qualità che più di tutte lo caratterizzava era la velocità sulla fascia, tant’è che gli stessi tifosi avevano deciso di paragonarlo al motore di una Kawasaki. A coronare questo periodo di gloria, arrivò anche la convocazione nella Nazionale di mastro Fuffo Bernardini, con esordio avvenuto il 28 settembre 1974. La storia sembrava intrecciare le sue fila con una velocità che in poco tempo lo rese uno dei calciatori più acclamati dalla tifoseria, che ancora oggi lo ricorda con commozione, oltre che uno dei più ricercati da vari club rifiutati dal terzino, motivando il tutto con l’amore per la maglia che da sempre aveva dimostrato. Purtroppo però il lieto fine non c’è per tutti, Rocca subì, proprio all’apice della sua carriera, un grave infortunio al ginocchio sinistro che lo porterà sotto ai ferri varie volte senza però, purtroppo, arrivare a quel risultato che gli avrebbe permesso di continuare a calciare un pallone. Finì troppo presto il sogno di quel ragazzo che si era costruito da solo e che a soli 27 anni, dopo sofferenze e tentati recuperi, fu costretto a dare l’addio al calcio.
Ma ancora una volta fu la determinazione a salvarlo da quello che poteva essere l’inizio della sua fine. Un sogno infranto e un ginocchio che non gli avrebbe dato tregua per il resto della vita, sarebbero potuti essere i presupposti per la rovina e invece fu proprio da tutto questo che egli seppe dare vita, con le sue forze, ad un nuovo inizio. Quello da allenatore delle squadre nazionali, con risultati eccellenti in moltissimi casi, quello da marito e padre di famiglia, quello da uomo attento a valori come la fatica, il lavoro, il sacrificio che sono alla base dello sviluppo di qualsiasi buon calciatore e non solo, quello da persona onesta e amante del calcio in tutte le sue sfaccettature. Insomma questa Kawasaki, in seguito all’incidente, ha saputo reinventarsi da sola, rimanendo sempre nel cuore dei suoi fan così com’era nata, ma continuando a dare loro tanto anche nella sua nuova forma.
1. Gli anni del “mitico Kawasaki”… che ricordi hai di quel periodo?
A chi me lo domanda rispondo sempre, e sono sincero, che la mia storia da calciatore è stata bellissima. Era il 1970 e a soli 16 anni mi ritrovai a giocare nella squadra dei miei sogni, con compagni che avevano giocato a grandi livelli. Ho potuto esaudire un desiderio e farlo con la maglia della Roma, la squadra per la quale ho fatto e faccio il tifo. Ero davvero felice, avvenne tutto velocemente, lo so, e fulminei furono l’esordio in prima squadra al torneo anglo-italiano, la conquista della maglia giallorossa da titolare e quella azzurra della Nazionale. In due, tre anni bruciai le tappe, mi ritrovai sulla vetta dell’Everest. Diventai Kawasaki per tutti, mi piaceva, non mi dava fastidio anzi mi divertiva essere assimilato alla moto giapponese di cui in Italia si vedevano già parecchi esemplari, ma con il tempo ho capito che tutti quelli che erano saliti su quella moto, l’avevano anche abbandonata non appena aveva bucato! Era una legge che non conoscevo, esaltato dal successo pensavo fossero tutte rose e fiori invece la vita è stata molto dura per me. Però è stata bellissima ed è servita da esempio ad altri.
2. E dell’esordio in Nazionale?
Anche quello è stato un momento fantastico. Facendo la trafila, passando quindi per le nazionali minori, mi ritrovai nella Nazionale maggiore, al fianco di grandi campioni e opposto ad avversari di livello internazionale. Non potevo pretendere di più. L’esordio avvenne il 28 settembre 1974 nella partita contro la Jugoslavia. Era la Nazionale di Bernardini, mastro Fuffo, un tipo particolare che aveva la bonomia del romano e la saggezza di chi sapeva di calcio perché aveva giocato e allenato ad altissimi livelli.
3. Il compagno di squadra e l’avversario più forti incontrati in carriera.
Sul compagno di squadra, la mia carriera è stata troppo breve per poterlo dire, per quanto riguarda l’avversario invece quello che mi rimase più impresso fu l’olandese Johannes Cruijff , incontrato in Nazionale nel 1975. Davvero uno dei calciatori più forti mai visti.
4. Se dovessi fare un paragone tra il calcio del tuo periodo, quindi anni ’70-’80, e quello di adesso, quali differenze metteresti sotto i riflettori?
Il calcio è una fonte di passione immensa per la gente, quindi penso che sotto il profilo dell’esigenza del pubblico non ci siano molte differenze tra ieri e oggi. La gente vuole grinta, passione, amore per la maglia. Certo dall’84 ad oggi i cambiamenti nel mondo del calcio ci sono stati, soprattutto mi sconvolge ma nello stesso tempo capisco e giustifico perché il gioco sia diventato più economico che affettivo. Per quanto riguarda i calciatori, anche in relazione alla mia esperienza personale, direi che gli errori sono sempre gli stessi, tanta responsabilità di chi li guida in questo mestiere e un pizzico di responsabilità propria, nel senso di quel troppo entusiasmo che ogni ragazzo all’apice della sua carriera non riesce a controllare. Nonostante questo, penso che i giocatori di oggi, pur con i difetti dei giocatori di sempre, siano più seri rispetto al passato e questo perché lavorano in strutture molto più competenti e organizzate rispetto a quelle che frequentavamo noi.
5. Il calcio prima e dopo l’infortunio: cosa ti manca di più e come lo vivi adesso?
È stato un sogno che purtroppo si è interrotto, la Kawasaki ha bucato una gomma. L’entusiasmo con cui amavo il calcio era riversato nel campo e invece non ho potuto più fare una partita di calcio a 22 anni, questo è quello che mi manca di più, quell’infortunio mi ha privato del piacere di giocare. Ma d’altra parte mi ha anche aperto la possibilità di rendere utile la mia esperienza agli altri. Pur con il dolore, ho dato un senso alla mia vita, dedicandomi alla preparazione, agli allenamenti, attraverso i quali cerco di essere un esempio per molti, soprattutto per i giovani ai quali non voglio avvenga ciò che è successo a me. Questo è il mio nuovo modo di vivere il calcio e ad essere sinceri, non mi dispiace affatto!
6. Quali sono i principi base di Rocca allenatore?
Al di là della nomea errata a cui spesso mi hanno collegato definendomi “sergente di ferro”, i principi che stanno alla base del mio modo di allenare sono ovvi e fondamentali per una professione come quella del calciatore. Sono un perfezionista della preparazione atletica, un buon motore è l’approccio perfetto per avere tecnica sopraffina e una lucidità tattica straordinaria. Al di là di questi fattori tecnici e specifici penso che fatica, sacrificio, lavoro siano principi base a cui ogni atleta che si rispetti dovrebbe far riferimento così come ogni allenatore dovrebbe invece avere l’esempio come guru personale, non puoi pretendere che i ragazzi stiano a dieta e poi pesare cento chili.
7. Proprio in relazione al concetto di esempio, quali sono secondo te i valori da trasmettere ai giovani, sia in ambito calcistico che nella vita in generale?
Ho sempre avuto la propensione a rapportarmi con i ragazzi che allenavo come fossi un loro genitore, al di là degli aspetti meramente tecnici o calcistici che tra l’altro ha anche varie componenti determinanti, ho sempre pensato che sia doveroso, soprattutto a livello educativo, cercare di raggiungere la perfezione. I giovani in generale devono essere educati a valori che porteranno dietro per tutta la loro vita, che gli permetteranno di affrontare la vita con determinazione e tenacia al di là delle numerosissime prove di fronte alle quali essa ci pone.
8. A proposito di ragazzi, nei mondiali del 2005 in Perù, quelli dell’Under 17 scrissero una lettera in seguito al pareggio con la Corea del Nord, in cui chiedevano al presidente Carraro di conservare il tuo ruolo su quella panchina.. bella soddisfazione no?!
È stata un’emozione fortissima leggere quella lettera, scritta da ragazzi di 18 anni. Mi ha reso orgoglioso di loro, delle fatiche che avevano fatto per arrivare fin lì e anche un po’ di me stesso, perché era il segno tangibile che stavo lavorando nella giusta direzione. Sapere di essere stimato per lealtà, correttezza e onestà in un mondo come quello di oggi in cui questi valori sembrano essere ormai solo involucri privi di contenuto e soprattutto sapere di esserlo da parte di ragazzi così giovani che stanno mettendo i mattoni per costruire se stessi, è davvero una grande soddisfazione oltre che un immenso piacere.
9. Vista l’esperienza con i giovani, quali sono i migliori talenti in giro per l’Italia?
Ce ne sono molti, basta girare un po’ per accorgersene ma il problema è che nel calcio italiano di oggi molti di questi non vengono valorizzati a pieno, si dà molto spazio alla componente straniera rischiando di perdere molti talenti italiani che potrebbero eccellere davvero.
10. Nel 2013 è arrivata l’elezione a miglior terzino sinistro della storia della Roma e quindi l’inserimento nella Hall of Fame. Com’è stato ottenere questo riconoscimento?
Ovviamente la cosa mi ha fatto molto piacere, soprattutto in relazione al fatto che a votare fosse stato il popolo. Sono rimasto assolutamente sorpreso dal fatto che la gente dopo 36 anni si ricordasse ancora di me in questi termini, non pensavo di essere rimasto così tanto nel loro cuore. Nello stupore c’è la felicità, tanta, di aver reso felice molta gente nonostante avessi giocato solo due anni. Ci sono giocatori che hanno dato alla Roma molto più di me ma il popolo è sovrano, ha fatto la sua scelta e io non posso che ringraziarlo ed esserne felice. È stato commovente, ho calpestato di nuovo quel suolo che tanto amavo come lo stadio Olimpico, ho di nuovo ricevuto l’applauso della Curva Sud..è stato molto toccante.
11. Da allenatore a osservatore della Nazionale… come vivi questo cambiamento?
Allenare è il mio ruolo, stare in mezzo al campo è ciò che so fare meglio e prima o poi vorrei tornarci, magari anche allenando un club che gestirei secondo quelle che sono le mie regole ovviamente. Ho vissuto momenti molto belli, allenando varie squadre nazionali e ho ottenuto anche molte soddisfazioni, ho in parte formato molti giovani che oggi hanno raggiunto livelli importanti, ora il mio ruolo è cambiato ma faccio comunque il mio dovere con il massimo impegno, senza problemi.
12. Cosa ne pensi della convocazione di Vazquez ed Eder in Nazionale?
Sono scelte del commissario tecnico, lui sa cosa è meglio per la squadra… indubbiamente sono due bei giocatori.
13. Un’ultima domanda inerente l’Inghilterra, casa del Roma Club AS Roma UK: cosa ne pensi del paese e di Londra? Andresti ad allenare lì?
L’Inghilterra è un paese molto bello, il calcio inglese ancora meglio. Girando spesso per il mondo ho avuto modo di conoscere molti paesi, città e di valutarne modi di vivere, serietà, professionalità… beh l’Inghilterra è una di quelle che mi ha colpito di più, soprattutto a livello di serietà nello sport e nel lavoro in generale. Quindi sì, direi proprio che andrei volentieri ad allenare una squadra inglese!
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