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Perotti: “Totti è il re di Roma. Nel 2014 volevo smettere, poi Gasperini mi ha resettato”

L'esterno argentino si è raccontato tra passato e presente: "Quest'anno potevamo vincere Europa League e Coppa Italia, ma il calcio è deciso dai dettagli"

Francesco Iucca

Stagione in chiaroscuro per Diego Perotti, con il gol su azione che mancava da tanto tempo ma che invece è arrivato nel momento più importante. C'è la firma dell'argentino sul secondo posto della Roma, una zampata al 90' del match col Genoa che è valsa la Champions League. Il numero 8 giallorosso si è raccontato in una lunga intervista al portale francese sofoot.com.

Tuo padre, Hugo, ha segnato la storia del Boca Juniors con il quale ha vinto la Coppa Libertadores nel 1978. Ti ricordi come ti ha parlato del calcio?

Quando ero un bambino, mi ha parlato molto di lui come giocatore. Fu costretto a terminare la sua carriera quando aveva solo 26 anni a causa di numerosi infortuni, ma ha vinto molti trofei in Argentina con il Boca. Mi ha raccontato il suo anno con Maradona, i suoi momenti con la nazionale... E' così che è nato il mio amore per il calcio.

Anche per il Boca, giusto?

Naturalmente, e ho avuto l'onore di giocare alla Bombonera. Ho giocato sei mesi per il Boca nel 2014, è stato incredibile. Nella mia carriera, ho giocato in molti stadi, il Bernabeu, il Nou Camp, l'Old Trafford, l'Olimpico di oggi, ma la Bombonera è diversa. Anche quando si è in panchina, sei felice perché vedi quei visi, ascolti queste canzoni che non si fermano mai... Auguro a tutti un giorno di poter vivere tutto questo.

Hai cominciato a giocare a calcio nel Boca. E' stato difficile essere il figlio di Hugo Perotti?

Certo, quando arrivi a un certo livello, quando hai 10 o 12 anni, tutti pensano che ci sei arrivato grazie a quello che ha fatto tuo padre. Sono stato costretto a dimostrare ogni giorno di avere le qualità per stare là. E' dura per un bambino, quindi ho lasciato il Boca per andare al Deportivo Moròn che era nella seconda divisione argentina. E' stato più facile per me, non mi conosceva nessuno e ho trovato la libertà che cercavo.

I ragazzi della tua età erano duri con te?

Sai, a quell'età, i giovani sono più o meno cattivi tra di loro. E' un po' folle infatti. Ogni anno, ci sono tra i 1000 e i 2000 ragazzi bambini che fanno dei provini con il Boca. E' una battaglia e la maggioranza dei ragazzi arriva dai quartieri poveri di Buenos Aires. Arrivano con la volontà di salvare la loro famiglia con il calcio. Non ero pronto per questa atmosfera.

Sognavi di giocare in Europa?

In realtà, sognavo prima di tutto di giocare a calcio. Non pensavo a cosa sarebbe potuto succedere dopo. Quando ho cominciato a giocare col Deportivo Moròn, in seconda divisione, avevo già realizzato il mio sogno. Tutto quello che poteva succedere dopo non era un sogno, non pensavo a Spagna, Italia o all'Europa.

Prima di firmare per il Siviglia nel 2007, hai incontrato i dirigenti dell'Atalanta. Eri già interessato al calcio italiano a quell'epoca?

Quando ero più giovane guardavo molto il calcio italiano. Ricordo alcuni match tra Lazio e Roma, i loro tifosi sono abbastanza simili a quelli in Argentina. La mia scelta di andare a Siviglia è stata più che altro guidata dalla lingua. Avevo 18 anni, dovevo prepararmi a vivere da solo. Mi avevano già parlato del Siviglia, così ho deciso.

Sei andato in Spagna con tua madre. E' stato difficile cambiare la tua vita?

Ho sempre voluto vivere da solo. Non so davvero perché, ma è qualcosa che è sempre stato in me. Mia madre è rimasta con me per tre mesi a Siviglia perché poi il suo permesso di soggiorno è scaduto. Quindi alla fine è stato normale. Ho giocato con le giovanili del club, sono arrivato con un amico argentino che era un po' come un mio piccolo papà. Sua moglie mi faceva mangiare, mi invitavano spesso a cena, quindi l'adattamento è stato più facile. Siviglia è senza dubbio una delle città più belle che abbia mai visto in vita mia. Ci sono rimasto per sette anni, anche se la mia famiglia e i miei amici inevitabilmente mi mancavano.

In Argentina hai cominciato a studiare psicologia.

Sì, ma sono stato costretto a fermarmi dopo due o tre mesi, perché sono dovuto partire per Siviglia. Quando sono arrivato in Spagna, ho cominciato un corso di criminologia, ma sai com'è. Il club giocava in Champions League, io sono diventato conosciuto e ho iniziato ad avere una sensazione strana: gli altri studenti mi guardavano storto perché giocavo a calcio. Siviglia è una città piccola, non è come Roma dove posso andare anche all'università senza essere riconosciuto. Lì l'università era solo a poche centinaia di metri da casa mia, ma non potevo stare tranquillo.

E' stato difficile da accettare?

In realtà no, perché sapevo di non poter conciliare lo studio, il calcio e tutta la mia carriera. Ho perso quella passione nel tempo. Oggi, se dovessi sedermi dietro a un banco, con degli appunti per tre o quattro ore, non ne sarei capace... Ho avuto il mio tempo quando ero giovane, ma ora non più.

A Siviglia hai avuto molti infortuni, alcuni lo hanno attribuito al tuo stile di vita. Sei davvero un festaiolo?

Bisogna viverla la situazione per capirla. Quando ti fai male tre o quattro volte al ginocchio e ti devi operare, puoi dire di essere sfortunato. Per il resto tu sei il colpevole. Un esempio: quando hai un infortunio muscolare, può essere perché bevi troppo alcol, hai un cattivo stile di vita, non dormi mai... All'epoca avevo poco più di 20 anni e si diceva che mi piacesse fare baldoria. Sai invece che c'è, che ero solo a casa, mangiavo da solo a casa e in realtà, a causa delle mie condizioni fisiche, non volevo vedere nessuno. Il mio obiettivo era quello di lavorare per tornare e, dall'altra parte, sentivo tutte quelle bugie. E' qualcosa che ti uccide. In questi casi, devi stare in silenzio e lavorare perché non puoi far smettere di parlare le persone.

Soprattutto la stampa?

E' sempre complicato, specialmente quando sei in una città piccola dove si conoscono tutti e amano il calcio. Se non giochi, non vai al ristorante con il resto del gruppo, non puoi parlare. Ma visto che gioco, agisco in maniera professionale perché amo questo lavoro. Sì, per me è un lavoro. Quindi quando sento la gente dire 'Perotti si è fatto male perché esce e si ubriaca ogni notte", voglio reagire, è normale. Sappi che io odio l'alcol eh. Ma rimani calmo!

Hai pensato davvero di smettere di giocare a calcio?

Sono tornato in Argentina per giocare al Boca nel 2014 e mi sono fatto nuovamente male. A quel punto ho cominciato a pensare di smettere con tutto. Normalmente sarebbe stata una cosa impossibile per me, ma ho chiamato mia madre, sono tornato a casa e le ho detto che non potevo continuare. Non riuscivo a guardare i miei compagni che giocavano, la mia squadra che vinceva senza di me... Ero stanco di tutto questo, sia mentalmente che fisicamente. La mia testa mi diceva di smettere. Questa è stata l'unica volta nella mia vita che mia madre mi disse: 'Ok, se vuoi lasciare ti supporterò'. Ho parlato con il mio agente e avevo un contratto da onorare con il Siviglia. Dovevo portarlo a termine e poi è arrivato il Genoa.

E soprattutto Gian Piero Gasperini. Qual è stato il segreto per salvarti?

Non è qualcosa di specifico se vuoi. E' un insieme di cose. Sono arrivato a Genova, in un paese dove non conoscevo assolutamente la lingua, dove non potevo esprimere i miei sentimenti e dovevo mettere la mia fiducia in gioco. Ho scoperto una nuova squadra, nuovi compagni, una nuova città e Gasperini mi ha preso sotto la sua ala. Mi ha fatto lavorare, così tanto che ha portato il mio fisico al 150% delle sue possibilità. E' come se avesse premuto il tasto 'reset' della mia testa e del mio corpo.

Ci sono stati anche degli incontri o dei consulti?

Sì, ma non è stato ciò che mi aspettavo. Ho visto così tanti dottori che mi hanno detto cosa stesse succedendo, che stavo per tornare... Probabilmente era la cosa peggiore che potessi sentire. Non avevo bisogno di una diagnosi, volevo solo risposte ai miei problemi. Non ne ho mai avute e quindi ero: 'Ok, va tutto bene, è tutto normale, ma perché non riesco a giocare 10 partite?' E, al Genoa, mi sono allenato tanto, forse troppo. Ho incontrato un allenatore che considero un angelo. Proprio perché sapeva di cose avessi bisogno: abbiamo lavorato per rafforzare il mio corpo, le mie gambe... Non ho mai smesso di lavorare. Quando sono arrivato in Italia, avevo un problema al polpaccio. Il dottore mi disse di allenarmi quella settimana, sentire se il dolore persisteva e poi vedere. Lunedì, mi faceva male. Martedì, lo stesso. Mercoledì, un po' meno, ma avevo ancora dolore. Giovedì non faceva più male. E il sabato ho giocato senza più fermarmi.

Quindi era anche una questione mentale.

Principalmente mentale, quella era la chiave. In Italia ho imparato a sopportare il dolore e a superarlo. Quando ero infortunato e non guarivo, era soprattutto per quello.

Come ha lavorato con te Spalletti in questa stagione?

Quando sono arrivato in Italia, i miei problemi fisici sono scomparsi. In questa stagione ho giocato più di 40 partite con la Roma. Il mister ha avuto inevitabilmente un ruolo nel mio successo, mi ha parlato molto e ha sempre avuto la capacità di elevare il gruppo al massimo delle sue qualità. Con Spalletti non ti puoi riposare sugli allori, è proibito, altrimenti non giochi. 

Lo vedi sorridere ogni tanto?

Non molto (ride, ndr)... Ma non sono uno che ride molto nella vita. Nonostante questo, ciò non mi impedisce - così come al mister - di avere un buon rapporto con i miei compagni. I ragazzi sono la mia seconda famiglia: mangiamo insieme, vinciamo insieme, dormiamo insieme.

E' stato difficile vedere Francesco Totti in panchina questa stagione?

Certo che è stato difficile... In pochi mesi a Roma ho subito capito cosa lui rappresenti per questa città, per questi tifosi. Capire che quella col Genoa è stata la sua ultima partita non è stato semplice da accettare. E' una leggenda, un punto di riferimento, un modello per un giocatore come me che deve ancora dimostrare molto. Per tutti, Francesco è il re di Roma. Bisogna rendersi conto di cosa significhi giocare tutta la vita in un solo club nel calcio moderno.

A livello individuale, in questa stagione ricordiamo la 'rabona' contro il Viktoria Plzen a novembre. Come ti è venuto in mente?

Ho sempre voluto, un giorno, fare un passaggio decisivo o segnare con una finezza. Ma quel giorno, non volevo segnare. Volevo mettere il pallone al centro, ma la palla è stata deviata ed è entrata. Tanti hanno parlato di un autogol per la deviazione col fianco dell'avversario, ma no. Era tutto mio (ride, ndr).

E' lo stesso per te segnare e fare un assist?

Sinceramente, preferisco fare un assist. Mi piace segnare, ma preferisco offrire, è sempre stato così e le mie statistiche lo dimostrano. Questa stagione non è stata da meno, ho fatto solo 9 piccoli gol. Il mio lavoro era servire per esempio Edin (Dzeko, ndr). E' un ragazzo importante, al di là dei suoi gol. In campo, è utile perché segna, ma può servire come punto di riferimento, di dialogo, ti permette di guadagnare tempo e campo. L'anno scorso è stato più complicato per lui, ma in questo, con più fiducia, ha contribuito a cambiare la mentalità della squadra.

Cosa è mancato alla Roma per vincere un trofeo?

Per me non è stato un titolo, ma molti che abbiamo perso in questa stagione. Non voglio dimenticare l'Europa League. Avevamo i mezzi per imporci in questa competizione, così come in Coppa Italia dove siamo usciti per mano della Lazio. La Roma è più forte dell'anno scorso, davvero, ma il calcio è una questione di dettagli e risposte sul momento.

Come con l'Argentina. Jorge Sampaoli è stato nominato da poco ct e non sei stato convocato per le prossime due partite contro Brasile e Singapore. Cosa sai di lui?

Ovviamente ho sentito delle cose, perché era a Siviglia in questa stagione. Ho parlato con alcuni amici che sono ancora lì. I suoi risultati parlano per lui, ora vedremo. L'Argentina aveva bisogno di un cambiamento. Il paese sta attraversando un periodo difficile nel suo calcio e la sua missione è semplice, perché se vogliamo andare in Russia...

Qual è il problema dell'Argentina?

Mi piacerebbe saperlo spiegare, ma non è così. Sulla carte, abbiamo indubbiamente alcuni dei giocatori più forti al mondo compreso il miglior calciatore del mondo. Ma quando vai in campo, tutto cambia. E' lo stesso per tutti, ma è difficile per alcuni che giocano a Barcellona o Parigi essere in Peru, in Bolivia, con quell'altitudine... Questo è uno dei motivi che possono spiegare alcuni problemi. Dopo questo, se andiamo a vedere, c'è stata la finale dei Mondiali nel 2014, due finali consecutive in Copa America, questo significa che c'è un po' di talento.

Sogni ancora di tornare in Argentina per finire la tua carriera?

Per ora, ho ancora delle cose da vincere in Europa, ma voglio tornare in Argentina un giorno, questo è sicuro. Ho come una sorta di debito col Boca. Ci sono stato per sei mesi, ma non ho mai giocato davvero a causa dei miei infortuni, quindi vorrei cambiare l'immagine che lo lasciato lì.