Era un afoso pomeriggio di settembre quando Carlo Verdelli, allora direttore della Gazzetta dello Sport, e il suo predecessore Candido Cannavò mi convocarono ad una miniriunione per capire come la Rosea avrebbe potuto onorare la memoria e il nome di Giacinto Facchetti, scomparso da poche ore. L’idea di dedicargli un premio sgorgò spontanea e immediata nel dialogo fra i miei due interlocutori. Personalmente proposi di specificarlo meglio con un «claim», come si direbbe oggi: «Il bello del calcio». Bello come era Facchetti: un’immagine da dio greco. Bello come era l’atleta: una corsa, un’efficacia e una modernità che sembravano volare sopra il campo e le cose del calcio senza contaminarsi. Bello come i valori umani e sportivi che portava con sé e che sono stati condivisi con una famiglia straordinaria. Un eroe di tutti che sfidava qualunque retorica. Il mio suggerimento fu accolto al volo: Giacinto e bello sembravano sinonimi. Un personaggio quasi inarrivabile, anche se a sua volta non santificabile: un uomo è pur sempre un uomo, nella sua limitatezza e in qualche inevitabile caduta. Il punto è che il versante oscuro di Giacinto era così nascosto e soverchiato dal resto da non risultare di fatto visibile.
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Totti, il senso estetico del gioco
Il numero dieci giallorosso ha molto in comune con Facchetti: per esempio la fedeltà a due sole maglie, quelle della sua Roma e della Nazionale.
I vincitori del Premio a lui intitolato hanno quindi sempre corso il rischio di non potersi accostare al monumento. Quei nomi talvolta non sono sembrati degni dell’originale, per così dire, con il rischio, in definitiva di cristallizzarne e disumanizzarne il ricordo: siamo sempre portati a credere che la parte migliore del mondo appartenga al passato e che l’età dell’oro ci sia sfuggita per sempre. Ma è solo un’illusione. Francesco Totti ha molto in comune con il terzino dell’Inter: per esempio la fedeltà a due sole maglie, quelle della sua Roma e della Nazionale. Eventi storici di una rarità purtroppo non più replicabile dal calcio d’oggi che non crede nei vivai, nei giovani e nelle bandiere. C’è poi il senso estetico del gioco ad avvicinarli: la purezza tecnica del gesto e la visione dell’azione di Francesco, i suoi passaggi, i suoi gol equivalgono, in una classifica di armonie, alle volate sulla fascia di Giacinto. I valori? Pentirsi davvero di uno sputo, di una maglietta volgare, di un calcione è un modello forse più utilizzabile della ben poco comune invulnerabilità alle tentazioni.
Soprattutto se il nostro personaggio è stato capace di scherzare su se stesso a fin di bene, come in quei libri di barzellette in cui accettava di passare per tonto pur di trasformare le risate dei lettori in un tangibile contributo di solidarietà. Perfino l’immagine pubblicitaria del campione romano è più convincente di quella di Banderas e dei suoi biscotti nel veicolare il bello giocoso e ottimista di una famiglia italiana. Il bello, sì: non c’è nessuno in Italia, e pochissimi nel mondo, che escano da un campo verde regalando gioia, serenità e ammirazione come sa fare Francesco. Facchetti oggi sarebbe lieto di premiarlo.
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