Sessant’anni a testa alta. Mai un compromesso, mai un gesto disonesto, mai un cedimento alla sua stella polare: il rigore morale. Francesco Rocca taglia oggi il nastro dei 60 e lo fa a modo suo: semplicità, buon senso, parole taglienti. Uno scomodo, Francesco, fuori dal coro, mai incline all’italico «volemose bene» che ha prodotto, e produce, un mare di guai. Rocca ha avuto due vite. La prima dalla culla all’infortunio che troncò la carriera a 22 anni, primo terzino moderno del nostro calcio: 18 gare in Nazionale. Un olandese di S. Vito Romano, abituato a galoppare sulla fascia sinistra per 90 minuti.
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Rocca fa 60 «Fiero di averli vissuti così»
Oggi festeggerà a San Vito, con la famiglia: «Sono contento di aver vissuto la vita a modo mio. L’unico rammarico vero è stato non poter più giocare a pallone».
DOPPIA VITA Una forza della natura, che fece piangere in un derby un altro talento di allora, il laziale Vincenzino D’Amico. Francesco, figlio di un idraulico, cominciò a giocare nella parrocchia del paese. Poi Genazzano, Bettini Quadraro e, nel ‘72, l’approdo alla Roma, dove Herrera lo lanciò in A il 25 marzo ‘73, in casa dell’Inter. Tre stagioni ad alto livello, con l’esordio in azzurro sotto la guida di Fulvio Bernardini e un posto nella storia della Roma con il nome di Kawasaki, poi, improvviso, lo stop drammatico. In un allenamento alle Tre Fontane, il 19 ottobre 1976, il ginocchio sinistro cedette. Fu l’inizio di un calvario che terminato dopo 5 interventi chirurgici, il 29 agosto 1981, con l’addio al calcio. La sua seconda vita è cominciata allora, con il diploma Isef, gli studi, le letture di storia e filosofia, i 30 anni di lavoro in federazione, dove nessuno gli ha regalato nulla e dove non gli è mai stata concessa la possibilità di guidare l’Under 21, offerta spesso ad allenatori alle prime armi.
Anche la sua Roma lo ha tradito più volte, l’ultima con la dirigenza Usa. Sabatini assicurò che ci sarebbe stato posto per lui, così non è stato e gli fu persino negato un biglietto omaggio.
Oggi Rocca festeggerà a San Vito, con la famiglia: «Sono contento di aver vissuto la vita a modo mio. L’unico rammarico vero è stato non poter più giocare a pallone. Il rapporto con la federazione è un’altra soddisfazione. Trent’anni di lavoro, guadagnandomi sempre la conferma. Come festeggio? Farò una bella passeggiata in campagna con mia moglie».
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