rassegna stampa

Gol, cuori e polemiche. Il mondo dell’egiziano che studia da Faraone

Il suo cuore ha sempre battuto innanzitutto per la sua terra, tant’è che il 74 come numero di maglia alla Fiorentina era stato scelto in onore ai morti di Port Said

Redazione

La vita, in fondo, è anche questione di cuore.

Ad esempio, quello che i tifosi della Fiorentina incisero sulla porta di casa di Mohamed Salah dopo la doppietta che l’attaccante aveva segnato alla rivale di sempre, la Juventus, trascinando alla festa pubblica il popolo viola.

L’egiziano a Firenze ci ha messo poco per mettersi al centro del villaggio, e non solo perché aveva scelto di abitare vicino a Ponte Vecchio. Il suo cuore, però, ha sempre battuto innanzitutto per la sua terra, tant’è che il 74 come numero di maglia alla Fiorentina era stato scelto in onore ai morti di Port Said (appunto 74), ovvero quei tifosi vittime degli scontri, avvenuti nel febbraio 2012, tra sostenitori dell’Al Masry e dell’Al Ahly. Un modo efficace per segnalare al mondo come l’Egitto, sia pur lontano dai suoi tacchetti, resti profondamente radicato dentro di lui, e non solo per il fatto di essere, a 23 anni, uno dei leader della propria Nazionale, con la quale ha messo a segno 23 reti.

IL CASO Con queste premesse «culturali», nessuna meraviglia che Mohamed viva la sua fede musulmana in profondità, con tutte le conseguenze che a volte in certe aree geografiche è facile immaginare. Per questo nel gennaio scorso, quando l’attaccante era già in pugno alla Roma, aveva preso piede una polemica sul presunto antisemitismo di Salah. Tutto era nato quando nell’agosto 2013 l’egiziano, allora al Basilea, in occasione del preliminare di Champions League contro il Maccabi Tel Aviv, sia all’andata che al ritorno non aveva dato la mano agli avversari, in un caso perché era a bordo campo per mettere a posto una scarpetta (una scusa, si disse) e nell’altro cavandosela «solo» con «pugno su pugno» a mo’ di rapper. All’epoca si scrisse come Mohamed avesse motivato gli episodi come «un tentativo di fare contenti tutti», cioè la Uefa e un gruppo di musulmani più radicali presenti a Basilea. Forte e chiara, invece, arrivò la sua smentita alla notizia di un suo tweet antiebraico proprio in occasione di quel match («Voglio segnare a tutti i costi perché la mia squadra deve passare. La bandiera sionista non deve sventolare in Champions»).

LA POLEMICA I veleni però hanno superato il tempo e così a gennaio a innescare la polemica era stato un tweet del presidente del Maccabi Italia, Vittorio Pavoncello, che nei giorni in cui Salah sembrava già un calciatore alla corte di Garcia, aveva scritto: «Noi ebrei come potremmo continuare a tifare Roma se dovesse ingaggiare un antisemita?». Poi un’aggiunta: «Molti attacchi personali sul web, molta solidarietà. No Salah alla Roma, non deve esserci spazio per i razzisti». A smorzare i toni, però, ci aveva pensato il portavoce della Comunità Ebraica di Roma, Fabio Perugia, dando corpo a una presa di posizione ufficiale: «La Comunità ebraica della Capitale non intende in alcun modo interferire nelle scelte della Roma riguardo i giocatori da inserire nella rosa. La stessa comunità è certa che il comportamento di qualsiasi giocatore che dovesse vestire la maglia giallorossa sarà ispirato agli alti valori sportivi e morali che muovono la società e la sua proprietà». Le parabole del mercato, però, subito dopo cambiarono corso e così Salah si ritrovò a Firenze dove, nel giorno della presentazione, gli toccò fronteggiare anche a qualche domanda sul tema. Il senso delle sue risposte fu chiaro: mai avuto nulla a che fare con l’antiebraismo. Meglio così. La fase storica che stiamo vivendo, d’altronde, non ha nessun bisogno di trasferire nel calcio il carico delle proprie tensioni.