rassegna stampa

Calcio, il potere del mondo ultrà

(Gazzetta dello Sport – M.Iaria /V.Piccioni) «Noi facciamo quel cazzo che vogliamo». Domenica sera hanno risposto così gli ultrà juventini allo speaker che, dopo i primi cori discriminatori contro i napoletani, recitava il solito,...

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(Gazzetta dello Sport - M.Iaria /V.Piccioni)«Noi facciamo quel cazzo che vogliamo». Domenica sera hanno risposto così gli ultrà juventini allo speaker che, dopo i primi cori discriminatori contro i napoletani, recitava il solito, inutile appello al buon senso. Quelle parole sono più eloquenti persino dell’elogio della nocerinità sbandierato con le buone e con le cattive per fermare una partita in Lega Pro. Perché fanno capire che nell’Italia della costituzione più bella del mondo c’è ancora una zona franca dove le minime regole di convivenza e di rispetto non vengono rispettate. È lo stadio di calcio. E quando allo stadio non si può entrare, la violenza, sotto forma di minaccia più o meno velata, riesce a insinuarsi nel recinto spesso allentato tra le società e certi quartieri della tifoseria.

Il bivio La tregua nella precedente gara casalinga della Juventus era solo apparente: bisognava recitare la parte dei bravi scolaretti per evitare la mannaia del giudice sportivo e poter marcare il territorio proprio contro il Napoli. Una strategia ineccepibile. Loro, quegli ultrà, hanno dimostrato di averla. E lo Stato, le autorità di pubblica sicurezza, le istituzioni sportive? Non pare proprio. L’ultimo dietrofront sulla normativa antirazzismo – non più l’automatismo della chiusura del settore alla prima infrazione, ma la condizionale per un anno ne è un’ulteriore conferma. Ma se, a distanza di alcuni anni ormai dal varo delle misure «tornellistiche», il tifo violento continua ad agitare l’opinione pubblica e gli appassionati, è bene che ci si renda conto di essere arrivati a un bivio: o si attua un piano coerente d’azione, a più livelli, non limitato alla pura e semplice repressione, oppure è meglio lasciar perdere e dire chiaramente che la sceneggiata dell’indignazione del momento soppiantata via via dal silenzio si replicherà a ogni puntata.

Gli ultrà oggi Secondo il censimento della Direzione centrale della polizia di prevenzione, riportato nel libro C’era una volta l’ultrà, in Italia gli ultrà delle serie professionistiche sono 45.100 divisi in 412 club, con 52 gruppi di estrema destra, 17 di estrema sinistra e 8 di entrambe. I club più numerosi (e meglio organizzati) sono quelli di Verona, Roma, Napoli e Salernitana. I dati segnalano un decremento del totale dai 58.900 del 2007/08, pure in seguito ai divieti alle trasferte e all’introduzione della tessera del tifoso, fortemente osteggiata. In realtà tutti i settori degli stadi si sono svuotati e ora la Serie A (23 mila spettatori medi) ammira con invidia i record di presenze di Premier (36 mila) e Bundesliga (44 mila). La colpa è anche di chi gestisce lo show: abbagliato dai soldi delle tv, ha favorito la trasmigrazione dallo stadio reale a quello virtuale, disinteressandosi delle istanze dei tifosi «normali» abituati a seguire le partite dal vivo e di quelli potenzialmente interessati, rifugiandosi dietro la scusa di una legge sugli stadi vanamente attesa, preoccupandosi più delle beghe politiche che dei miglioramenti necessari al sistema. Anche gli ultrà, o meglio la parte sana che rappresenta tuttora la maggioranza di quel mondo, sono rimasti inascoltati. E questo è stato uno sbaglio. Adesso il popolo delle curve è meno numeroso dei favolosi anni Ottanta e Novanta, fa meno paura, è più disgregato, gruppi storici sono stati smembrati e spesso la violenza è opera di cani sciolti. Ancor più pericolosa, per certi versi, perché imprevedibile.

Le misure infruttuose Il Viminale sventola le statistiche degli ultimi anni: con l’introduzione del biglietto nominale e della tessera del tifoso, a cavallo della morte dell’ispettore Raciti nel 2007, gli incidenti con feriti sono calati del 72% e i feriti tra gli agenti del 92%. Vero, non ci sono più i bollettini da guerra di una volta, ma il prezzo da pagare è stato molto alto. L’eccesso di burocrazia ha reso gli stadi offlimits per tantissima gente. E la reiterazione di certi comportamenti violenti ha svelato i limiti di programmi come la tessera del tifoso. Ce l’avevano in tasca quelli che hanno imposto ai giocatori del Genoa di togliersi la maglia contro il Siena, quelli che hanno minacciato la Nocerina spingendola alla pantomima di Salerno, quelli che hanno fatto chiudere le due curve dello Juventus Stadium.

I suggerimenti Lo scatto in avanti è d’obbligo. Basta con la politica dei divieti fini a se stessi, largo anche a misure inclusive in modo da isolare chi delinque. Se si vuole debellare il tifo violento e, allo stesso tempo, accendere di passione i nostri grigi stadi, bisogna essere in grado di coniugare la repressione chirurgica col dialogo. Dialogo che non significa affatto complicità con quei gruppi che ancora godono di privilegi e pretendono un regime di extraterritorialità per gli stadi. No, quei rapporti malsani vanno interrotti una volta per tutte. Le società, piuttosto, creino confronti trasparenti e virtuosi con le tifoserie: l’Uefa ha istituito la figura del «supporter liaison officer», cioè del delegato ai rapporti coi sostenitori, ma in Italia devono ancora essere formati! Le istituzioni sostengano i trust di tifosi che anche da noi stanno prendendo piede (gestiscono, per esempio, i settori giovanili di Taranto e Sambenedettese). Insomma, si facciano le riforme perché così non si può più andare avanti.