rassegna stampa roma

La sfida durissima all’essenza e ai simboli dell’eterna romanità

Tra Spalletti e Totti si inscena uno spettacolare duello antropologico. Il tecnico detesta Roma perché la sua essenza morale le impedisce di vincere

Redazione

A un giornalista romano che gli chiedeva quali fossero le sue opinioni politiche, Nils Liedholm, allora allenatore giallorosso, rispose: «Socialdemocratico». E il giornalista: «Saragattiano?». E lui: «guardi che sono svedese». Liedholm non si era fatto ingoiare dalla mollezza romana e la Roma vinse lo scudetto. Persino la parlata di Liedholm rimase per sempre qualcosa di estraneo, di irriducibile al lessico romano.

Anche Luciano Spalletti ha preso di mira il simbolo della romanità calcistica, Francesco Totti, per tutti l’amatissimo, l’idolatrato, il veneratissimo «Pupone», per non farsi abbindolare dai riti e dai ritmi della Capitale. Ne ha fatto la sintesi umana dello sconfittismo giallorosso (dieci anni di figuracce, ha detto), e del languore delle ore piccole, della bella vita, della pigrizia (come giocare a carte fino alle due di notte prima della partita, ha detto). Tra Spalletti e Totti si inscena uno spettacolare duello antropologico. Spalletti detesta Roma perché la sua essenza morale le impedisce di vincere. E infatti ce l’ha anche con un’altra icona dell’antropologia romanista: Daniele De Rossi. Contro Roma ha già perso la panchina una prima volta. Ora basta, Roma la molle, Roma l’incantatrice, Roma con le sue luci, i suoi colori, la sua musica, le sue notti, le sue feste, la sua testa poco concentrata sulla vittoria in campo, stavolta deve piegarsi all’uomo venuto da un altro mondo. Geograficamente non molto distante: la Toscana. Ma mentalmente lontano come due pianeti che non si guardano.

I romani hanno sempre l’espressione di chi la sa più lunga, di che ne ha viste di tutti i colori, di chi sa che la storia deve fare i conti con la città «der Cuppolone» e della maestà del Colosseo (Antonello Venditti, cantore ufficiale). Sentimentalmente tra il Pupone e Spalletti non c’è partita: vince Totti. Roma, dice lo scrittore Filippo La Porta, è la città dell’«anvedi», che significa: stai a vedere che vorresti sorprendermi. Roma, ha scritto il milanese Stefano Bartezzaghi nel suo «M-Una metronovela», si riconosce in un’espressione: «“Sticazzi” significa: vabbé, chi se ne importa (“Un po’ mi è dispiaciuto, ma poi sticazzi”), mentre a Milano e in tutto il Nord lo si considera invece un equivalente di “Accidenti, sono impressionato” con un totale capovolgimento di significato». Spalletti deve stare attento a non capovolgere i significati dell’atteggiamento di Totti, perché uno «sticazzi» equivocato potrebbe stenderlo. I romani credono di saper tutto, guardano tutto con cinismo e dall’alto della città che loro amano chiamare «eterna». Si dice che tra gli impiegati romani dei ministeri si affermi che i ministri passano, ma i ministeri restano. Stia attento Spalletti perché i tifosi giallorossi pensano che, in fondo, gli allenatori passano ma la «Maggica» resta per sempre. E se qualcuno obiettasse: ma dai, di romani romani non ne esistono più, sono tutti immigrati e figli di immigrati, la risposta sarebbe: appunto, proprio perché non lo sono giocano a fare i romani di infinite generazioni, tutti discendenti del marchese del Grillo, anche se vengono dalla Marsica, dalle Puglie o dalla Campania.

Spalletti deve considerare i tempi di reazione del popolo giallorosso alle tensioni tra la sua panchina e Totti. All’inizio hanno gridato al sacrilegio, hanno issato cartelli, si sono indignati per la profanazione del Capitano. Stavano per fare l’insurrezione. Poi però Spalletti ha infilato la serie positiva di vittorie e il popolo giallorosso ha accettato obtorto collo persino l’esclusione del Pupone dall’amatissimo derby. Al primo intoppo, il pareggio casalingo con il Bologna e le disavventure di Bergamo, si è riaccesa la miccia della ribellione. E il duello antropologico ha avuto libero sfogo. Secondo modalità molto tipiche del romanismo giallorosso, e cioè quando occorrerebbe un ultimo sforzo per ottenere il risultato decisivo, il secondo posto per la Champions, alla vigilia della partita-spareggio con il Napoli. Questo, Spalletti non lo aveva considerato.

Ma lo deve considerare se vuole vincere la battaglia con il suo nemico antropologico, la prevalenza del sentimentalismo, er core de Roma, «bello de nonna» gridato al giovane Florenzi, la pastasciutta, il languore delle sere e delle notti. I leghisti erano arrivati tutti infervorati contro Roma ladrona, e dopo un po’ ne sono rimasti ammaliati, perdendo la purezza. Il predecessore di Spalletti, Garcia, si è fatto avvolgere dai riti dell’edonismo romano, con quali risultati si è visto. Perché i manuali di storia capitolina non dicano un giorno: gli Spalletti passano, i Puponi restano.

Pierluigi Battista