(di Tommaso Gregorio Cavallaro) Sono ormai tre mesi, più o meno da quando s’è insediato a Trigoria in qualità di head-coach, che Luis Enrique continua a ripetere che non è sua intenzione riproporre
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Roma come il Barça? Per ora, solo nei difetti
(di Tommaso Gregorio Cavallaro) Sono ormai tre mesi, più o meno da quando s’è insediato a Trigoria in qualità di head-coach, che Luis Enrique continua a ripetere che non è sua intenzione riproporre
alle pendici dei Sette Colli il modello Barcellona e la sua relativa filosofia di gioco.
E’ indubbio che la cosa sia alquanto complicata, soprattutto per differenze di natura tecnica – senza voler togliere nulla alla forza della Roma, i blaugrana sono di un’altra categoria – e finanziaria, visto che i Campioni d’Europa si sono rafforzati con Fabrègas e Sanchez. C’è però la sensazione che la compagine giallorossa, in qualche modo, inizi a ricordare, nel modo di predisporsi e di muoversi in campo, la banda Guardiola. Il problema, però, è che le somiglianze al momento sembrano riguardare solo i pochi difetti che il Barcà ha mostrato in questi anni.
Il Barcellona “way of playing”, che Luis Lucho Enrique sta tentando d’innestare nell’albero della Magica, si basa su un’incessante costruzione di gioco, che deve partire dai centrali difensivi – nel Barcà siamo arrivati al paradosso di usare due centrocampisti (Mascherano e Busquets, ndr) per quel ruolo – passare per il centrocampista – specie il centrale, una sorta di volante alla brasiliana, che funge da raccordo tra i reparti – e arrivare agli attaccanti, supportati dalla spinta dei laterali bassi a cui è richiesto un continuo up & down. Il tutto tramite un’infinita ed estenuante serie di passaggi, che diviene rapidissima nel momento in cui i blaugrana si accorgono di aver trovato lo spazio giusto per affondare, senza usare, per esempio, le verticalizzazioni, fondamentali invece nel 4-3-3 zemaniano. Alla base di tutto ci deve, però, essere prontezza di riflessi ed estrema rapidità nel muoversi e nel far muovere la sfera di cuoio.
La Roma sta tentando di replicare il tutto. In queste prime tre partite ufficiali, infatti, i terzini hanno sfruttato il movimento a rientrare degli intermedi per inserirsi in avanti; il centrale di centrocampo è sceso sistematicamente al livello dei difensori sia per dare copertura che per essere il primo a dettare il timig di gioco; gli attaccanti hanno tentano – spesso vanamente – di non dare punti di riferimento alle difese avversarie, con un continuo scambio di posizione. Cosa è mancato, allora alla Roma per avere gli stessi effetti mortiferi che la Guardiola’s Band ha di solito su chi le si para di fronte? Fondamentalmente, la velocità.
Questo sistema di gioco, che ha portato Guardiola e compagnia in vetta all’Universo calcistico, è fondamentale che venga fatto in velocità, onde evitare che la squadra avversaria chiuda tutti gli spazi, che è l’unico e vero modo per neutralizzarlo. Sia il Milan, nella partita di ieri sera al Camp Nou, che il Cagliari, nella sua vittoriosa trasferta romana di domenica, hanno evidenziato come mantenere tutti i dieci giocatori di movimento sotto la linea del pallone, renda inefficacie il “Tiqui-taca” e permetta delle veloci ripartenze in contropiede. Le uniche squadre, infatti, che negli ultimi anni sono riuscite a mettere in seria difficoltà il Barcà,sono state quelle che hanno ermeticamente chiuso tutti gli spazi - senza far ricorso a un esasperante pressing, che le avrebbe fiaccate - cercando di inaridire le fonti di gioco blaugrana. L’Inter di Muorinho, e in parte il suo Real, il Chelsea di Hiddink (Semifinale Champions 2008/09, ndr), oltre al già citato Milan di Allegri, sono riusciti nell’intento, proprio impostando in questa maniera la sfida contro Guardiola e soci. Quando, Manchester di Ferguson docet, si prova ad affrontare il Barcà a viso aperto, le possibilità di venire travolti sono pari al 99,9%.
Prendendo spunto dalla sfida di Champions, tra i Campioni d’Italia e quelli di tutto, si possono capire anche le difficoltà che sta avendo la Roma, e che in Italia rischia di continuare ad avere per molto tempo, in questo inizio di stagione. Tutte le squadre, che affronteranno i giallorossi, cercheranno di intasare gli spazi, recuperare il pallone e partire in contropiede, soprattutto sulle fasce sfruttando il fatto che i terzini romanisti sono portati a spingere. Ovviamente, non è detto che questa tattica renda completamente vano il modo di fare calcio di Luis Enrique, ma se a questo sommiamo la mancanza di rapidità e la poca intercambiabilità – mostrata finora dai frombolieri romanisti – allora il malessere rischia di trasformarsi in cancrena. Oltretutto, mentre gli avanti di Pep hanno determinate caratteristiche, che gli consentono di giocare indifferentemente in tutte le posizioni d’attacco, quelli della Roma – Lamela, Borini e Caprari a parte – sono delle punte centrali pure. Si spiegano così l’elefantiache difficoltà sia di Osvaldo che di Bojan ad adattarsi al ruolo di esterni, che hanno reso vane le imbeccate di un fantastico Totti, a cui però l’abbassarsi fino alla trequarti ha precluso la possibilità di essere incisivo sotto porta. Altro problema sono le fasce. La rosa della Roma ha tre terzini destri, di cui due (Rosi e Cassetti, ndr) non sembrano avere le caratteristiche adatte per questa filosofia di gioco, mentre l’altro – Cicinho – ha il passo, piede e corsa giusti per Luis Enrique, ma viene da anni di quasi inattività. Sulla sinistra, invece, c’è il solo Josè Angel, che sta stupendo tutti per le sue qualità, ma che, come scritto, non ha nessuna alternativa. Il roster, infine, dei centrocampisti, è di primissima qualità; ma va dato loro modo e tempo di trovare l’affiatamento giusto.
Alla Roma, come chiedono dirigenti, tecnici giocatori, deve essere dato il tempo sufficiente per metabolizzare questa rivoluzione culturale. La piazza sembrerebbe essere disposta a farlo. La sensazione è che però ci sarà molto da pazientare prima di veder maturi i frutti del lavoro dell’asturiano. La speranza dei tifosi è che già sabato la Roma faccia vedere il suo nuovo e vero volto.
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