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Riccardo Viola: “Mio padre non era romano, ma un innamorato di Roma”

“Uno degli aspetti positivi di Dino Viola era il non essere un romano, ma un innamorato di Roma. Per un innamorato di questa città l’impegno profuso per una grandezza nuova di Roma non ha eguali: è raggiungere un obiettivo e la sera stessa...

Redazione

“Uno degli aspetti positivi di Dino Viola era il non essere un romano, ma un innamorato di Roma. Per un innamorato di questa città l’impegno profuso per una grandezza nuova di Roma non ha eguali: è raggiungere un obiettivo e la sera stessa superarlo e andare avanti” .

Parla così Riccardo Viola ai microfoni di Rete Sport, figlio del presidente del secondo scudetto giallorosso del 1983. Una stagione indimenticabile iniziata ad inizio estate 1979 e conclusa il 19 gennaio 1991 con la morte dolorosa dell’ingegner Viola: “Sono 21 anni che Dino non c’è più, ma sapere che dopo tanto tempo ancora telefonate per ricordarlo mi fa venire i brividi in un’epoca che cancella tutto troppo in fretta”. La centralità di Dino Viola nella storia della Roma trova il suo apice con la vittoria dello scudetto, ma è il processo di crescita della società e di tutto l’ambiente Roma ad esser risultato decisivo. “Una questione di mentalità” – come ha più volte sottolineato lo stesso Dino Viola. “Anche nel giorno dello scudetto – prosegue Riccardo Viola – mio padre ha sempre pensato al domani, non si è mai adagiato e per la Roma qualche anno di vita ce lo ha lasciato di sicuro. Il momento dello scudetto deve essere visto come la crescita di una società che parte nel 1979 e vince dopo quattro anni. Una crescità continua, e lo scudetto lo vincemmo nell’anno in cui per assurdo lo meritavamo di meno, ma lo vinci per una somma di fattori”. (...)

Riccardo Viola ricorda poi i modi di gestione del padre, una simbiosi perfetta tra un uomo e la sua creatura prediletta: “La nostra era un’azienda familiare, non c’erano i capitali di una multinazionale, bisognava quindi pensare e progettare qualcosa di diverso. Quando prelevammo Trigoria c’era solo una facciata, abbiamo costruito tutto il resto ad iniziare dai campi. La famiglia Viola si è trovata ad un certo punto come azienda propria la Roma, non altro. Si viveva di calcio 24 ore su 24, 365 giorni l’anno. Quando facevi finta di essere in vacanza eri sempre lì con la Roma. Siamo stati la prima società a registrare un marchio grazie anche a Gilberto Viti, responsabile della biglietteria. Mio padre è diventato poi scomodo per molti: le sue battaglie, le sue innovazioni, il tesseramento di Cereo come esempio. Mancava solo lo stadio. Ma il discorso dello stadio era qualcosa di troppo difficile per la logica politica. (...)

Una storia irripetibile incrinatasi nel finale per l’ingresso in scena di nuovi mondi, nuovi personaggi, un calcio totalmente diverso: “L’avvento dei grandi imprenditori, prima di tutti Berlusconi ti metteva fuori mercato. Mio padre sportivamente parlando è morto al punto giusto, se fosse rimasto avrebbe portato la Roma al fallimento perché da solo non ce l’avrebbe fatta in un calcio così diverso. Per lottare da solo avrebbe perso”. La morte sopraggiunse nei giorni della transazione con Paulo Roberto Falcao, la grande intuizione di Viola con cui si era alzato un muro dopo le polemiche per il contratto e l’addio del brasiliano alla Roma nel 1985: Mio padre si sentì male a Cortina, quando arrivò il momento della transazione con Falcao. Da eredi dei suoi beni fummo noi figli a concludere quello che fu un rapporto umano e lavorativo importantissimo che legava mio padre a Paulo Roberto, siamo contenti che sia finta così. Non poteva andare diversamente. Il mio ultimo ricordo di mio padre sono le sue parole sul problema di doping che aveva coinvolto Peruzzi e Carnevale. Il suo ultimo pensiero fu ancora una volta sulla sua Roma” (...)