rassegna stampa

Burdisso: “Totti il più forte, ma col Cluj per poco non ci siamo picchiati”

LaPresse

L'ex giallorosso, che ha dato l'addio al calcio: "A Roma se litighi col Capitano sei morto: è sempre colpa tua, quello che Totti suscita nelle persone va al di là di ogni razionalità"

Redazione

Esattamente un mese fa, avendo alle spalle 37 anni di vita e quasi 20 di carriera, 18 trofei fra Argentina e Italia, sul braccio sinistro il segno della fascia di capitano messa ovunque abbia giocato ("Tranne che all’Inter, Zanetti non si fermava mai..."), Nicolas Burdisso ha detto basta con il calcio. Giocato. Perché ha capito di aver fatto "proprio tutto quello che avevo sognato da bambino". Ecco uno stralcio della sua intervista a "La Gazzetta dello Sport".

Sulla figlia...

La storia è nota: mia figlia Angelina a due anni deve sfidare una leucemia, io smetto di giocare per 6 mesi che passo in ospedale, torno solo quando lei è fuori pericolo. Nel calcio si parla di confronti diretti: quello fu con la vita. Mi insegnò tre cose. La prima: cos’è la vera paura. Oggi non ne ho più perché Angelina sta benissimo, anche se ogni volta che le viene un banale mal di testa mia moglie cambia faccia. La seconda: davanti alla paura un calciatore è un uomo come un altro. I soldi aiutano, se non ne avessi avuti non avrei potuto lasciare il mio lavoro per un po’, ma possono finire presto e comunque non sono quelli a salvarti da ansia, depressione, sensi di colpa: ho visto la vita di Adriano stravolgersi giorno dopo giorno, quando morì suo padre. La terza: tutti abbiamo paura, ma dopo la paura viene sempre il coraggio. A chi più, a chi meno: dipende dal grado di sfida che ti nasce dentro. E non c’è sfida più grande di quella per la vita di un figlio, ovvio.

Il rapporto con Maradona

Ci ho ripensato un sacco di volte quando Diego, prima di ogni partita, bussava camera per camera e si fermava a chiacchierare. Non di calcio come fanno i c.t.: ci parlava di cose forti, ci raccontava i suoi errori. Quando si ammalò Angelina era stato uno dei primi a telefonarmi, non ci eravamo mai conosciuti e non mi fece neanche parlare: “Ora devi vincere la tua partita più importante”. Quando ho lasciato il calcio ho fatto un post con una sua foto, e mi hanno chiesto perché. Perché? Perché sono cresciuto con lui, lui calciatore, campione del mondo, mito, simbolo della lotta a fianco dei più deboli. Perché nessuno ha il suo carisma, perché ti sa andare dritto all’anima come fece con me due anni fa a Roma, alla Partita del Papa. Non lo vedevo né sentivo da 6 anni, in Sudafrica ci aveva salutato distrutto. Mi guardò e mi disse: “Nico, ti voglio bene: tu non mi hai mai tradito”. E io: “Come avrei potuto tradirti, Diego?”. E lui: “Nico qui con noi oggi c’è chi mi ha tradito. Lo capisco quando uno mi tradisce”".

Su Messi.

Non è vero che in nazionale Leo soffre Maradona: nel 2010 ho visto da vicino il rapporto che avevano. Il grado di emotività dell’argentino nei confronti dell’Albiceleste è spaventoso, ma quando mette la maglia dell’Argentina la sofferenza di Leo non è di identità, è calcistica: nel Barça gioca con gente che fa parte di una scuola, prima che di un club, poi è dura doversi confrontare con un progetto che cambia in continuazione: faticherebbe anche Cristiano Ronaldo. Messi non è un mio amico, perché ne ho davvero pochi nel calcio. Con lui ho anche litigato di brutto, dopo Argentina-Colombia 0-0 in Coppa America 2011, quando le nostre facce arrivarono molto vicine si mise in mezzo Gabi Milito, che giocava con lui nel Barça: “Nico, devi farla finita tu: lui quando si incazza non si ferma”. Però porto ad esempio l’umiltà di Messi, ho conosciuto giocatori nel Genoa o nel Toro che se la tirano più di lui. Ed è il migliore che ho incrociato in campo, per la qualità ma anche la quantità di cose che fa: in 21 giocano una partita, e lui un’altra.

Francesco Totti.

Francesco è l’italiano più forte con cui ho giocato. Velocità di pensiero unica: nel fare cose diverse e, negli ultimi anni, nella capacità di adattarsi a doverne fare di ancora diverse. Dopo Cluj-Roma 1-1 c’è mancato poco che ci mettessimo le mani addosso: là davanti avevano giocato a “segno io, no segna tu”, alla fine prendemmo gol e mi andò il sangue al cervello. Ma a Roma se litighi col Capitano sei morto: è sempre colpa tua, quello che Totti suscita nelle persone va al di là di ogni razionalità. Non so se sia pentito di non aver mai cambiato squadra per vincere di più, ma non credo: non ha mai scelto di vincere, ha scelto di stare a Roma. E a Roma sarà felice anche ora: se è infelice, è solo perché non può più giocare.

Il futuro.

Ogni calciatore dovrebbe farsi questa domanda: stai usando il calcio solo per guadagnare o hai uno scopo? Se pensi solo allo scopo e perdi l’essenza del gioco poi in campo fai schifo, ma per me il calcio non è mai stato solo un gioco. Nel calcio ho sempre cercato di essere soggetto, non oggetto: per avere un ruolo anche in spogliatoio, per provare a far crescere chi ho avuto intorno, non solo me stesso, seminando i miei valori. Per questo ho smesso, anche se avrei potuto continuare ancora per almeno un anno e anche se mi hanno cercato 2-3 club: avevo bisogno di una motivazione forte che nessuno è riuscito a darmi. Per questo, quando gli ho detto addio, ho scritto che “il calcio è stato uno strumento per essere felice e migliorare come persona, e lo sarà ancora”. Per questo non ho accettato di fare il commentatore tv, ho rifiutato la proposta di un club importante per fare il d.s., ho già seguito il corso allenatori Uefa B e farò l’Uefa A. Per sentirmi forte devo stare sul prato: dentro quelle quattro linee bianche, non dentro un ufficio.

(A. Elefante)