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Cuffie e smartphone, il calcio all’età del muto: l’allarme di Totti sul clima cambiato negli spogliatoi

LaPresse

Sulla Treccani "spogliatoio" è diventato anche un sinonimo dello spirito di corpo di una squadra, la coesione di un gruppo composto da corpi e anime. Quello che in pratica l'ex capitano della Roma ha spiegato non esistere quasi più

Redazione

Sulla Treccani "spogliatoio" è diventato anche un sinonimo dello spirito di corpo di una squadra, la coesione di un gruppo composto da corpi e anime, soprattutto di anime. Quello che in pratica Totti ha spiegato non esistere quasi più: "Se non parli inglese non capisci più niente". E pensare che lo spogliatoio della Roma era rimasto uno dei pochi, sino a qualche anno fa, a conservare un’identità ben definita, una sua lingua, che non era neppure l’italiano, ma il romano. Non a caso al 41enne Simone Perrotta ciò che più manca del calcio abbandonato è "l’atmosfera dello spogliatoio", scrive Enrico Sisti su "Repubblica".

"La strada è senza ritorno", ammette Massimo Mauro, che non ha difficoltà a immaginare migliaia di spogliatoi dove ragazzini si chiudono in se stessi, chattano, sono solo corpi sotto cuffie gigantesche o auricolari invisibili che sparano musica a palla e rendono superfluo il mondo circostante. "La strada è senza ritorno perché i tempi che viviamo ci portano sempre più a contatto con la tecnologia, soprattutto i giovanissimi", prosegue Mauro. "Ma il problema non è solo questo. È vero: le cuffie chiudono i mondi. Però manca un cuore di partenza, una lingua comune. Il senso di appartenenza non lo si può inventare dal nulla. Io credo che la multiculturalità sia un patrimonio straordinario, nella vita civile come nello sport, ma con degli effetti collaterali da accettare: la babele dei linguaggi, il non capirsi subito. Ci vuole tempo e il calcio non ne offre. La Francia ha vinto il Mondiale con la forza fisica e non con un progetto "umano". E per vincere così non c’è bisogno del "vecchio spogliatoio"".

Una suggestione in più da Marco Di Vaio, club manager del Bologna: "Il frequente isolarsi dei giovani calciatori dipende anche dal fatto che loro, più di quelli della mia generazione, diventano professionisti precocemente e hanno più cose su cui riflettere anche a 15 anni, hanno più stimoli e più verifiche, quindi con le cuffie in testa si concentrano di più su ciò che gli è stato chiesto". E l’amicizia nello spogliatoio? "Non è quella che fa vincere", riconosce Dino Zoff. "Certo può esserci, ma non è così che vinci. La palla devi passarla anche a chi non ti è amico. In più i giocatori adesso vanno e vengono e spesso non fanno proprio in tempo a diventare amici, Anche volendo".