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Papà, ma allora qualche volta vincono i buoni

Gli eterni secondi, quelli del 7-1 di Manchester e del 'mai una gioia', scrivono la favola più bella. E il pianto di Manolas in panchina a fine partita è l'immagine che racchiude il romanismo più puro e sincero

Marco Prestisimone

C’era una volta la Roma. Quelli che non vincono mai. Gli eterni secondi, gli eterni sconfitti. Quelli del 26 maggio, quelli che in Europa ne prendono sette dal Manchester United e dal Bayern e sei dal Barcellona. Quelli che, come in alcuni giochi di illusione ottica, più ti avvicini all’obiettivo e più si allontana. Quelli del non ce la farai mai contro Messi. Quelli che nel momento decisivo steccano sempre. Quelli dei rigori non dati, quelli che i gol se li fanno da soli. Quelli del ‘bravi ma non basta’. Del riprovate l’anno prossimo.

C’era una volta la Curva Sud. Il traino e il motore pulsante delle 65 mila anime che hanno raggiunto lo stadio e dei milioni che invece nello stadio avevano, da fuori, lanciato solo il cuore. Quella del laboratorio sociale per tutte le tifoserie d’Italia. Ma chi se ne frega delle multe, tifare è una cosa sacra e si fa come diciamo noi. L’urlo incessante per i 94’ dell’Olimpico. Il dodicesimo, il tredicesimo, il quattordicesimo e il quindicesimo uomo in campo. Quelli del ‘chi tifa Roma non perde mai’. I primi a crederci anche dopo il 4-1 di Barcellona. Del ‘che sarà, sarà’.

E stavolta sarà una storia bellissima.

C’era una volta Edin Dzeko. O Edin Cieco. Il gol divorato a porta vuota contro il Palermo sapeva tanto di resa. Ma vai a dirglielo ad uno slavo che deve arrendersi. Che è stato sconfitto, prima ancora di cominciare a giocare. Che deve andare a Londra (un sentito grazie alla moglie Amra) a gennaio per scansare la trappola del Fair Play Finanziario. No. Lui resta. Segna il gol decisivo agli ottavi. Segna al Camp Nou, e si ripete all’Olimpico. E si prende con la forza il rigore del 2-0.

Quel bacio a De Rossi con la consegna del pallone è quello di chi non ha smesso mai di crederci.

C’era una volta Kostas Manolas. Quello dell’autogol all’andata. E che non ci sta ad entrare nella storia dalla porta sbagliata. Lui la porta la sfonda a testate, se necessario. Ed è proprio di testa che regala ai romanisti il primo momento di follia. “Non mi vorrai dire che ce l’abbiamo fatta davvero…”.

A fine partita, poi, via l’armatura e anche il guerriero greco si abbandona ad un pianto che vince a mani basse il premio di immagine più romanista della serata.

C’era una volta Eusebio Di Francesco. L’inadeguato, l’allenatore da Sassuolo. Quello che non cambia mai, lo zemaniano non adatto alla piazza di Roma. Quello del ‘dimettiti’, perché a noi serve Conte o Ancelotti. Di Francesco però a botte di resilienza ha resistito, si è aggrappato alle certezze del lavoro e dell’educazione e si è preso la sua rivincita. Dimostrando che gentile non vuol dire senza personalità, che umile non vuol dire senza ambizione. Che non serve urlare per farsi sentire se hai un’idea grande così.

E infine c’era una volta Daniele De Rossi. C’è un fotogramma che a molti è passato inosservato e che racconta chi sia. È il 52’ del ritorno con lo Shakhtar. Dzeko segna, tutta la panchina salta e corre ad abbracciarlo. De Rossi si ferma, si gira e vede Alisson da solo, inginocchiato con le dita verso il cielo. Ma non esiste che ci sia un romanista che quel momento lo festeggi da solo, così il capitano si estranea dall’esultanza del resto della squadra e corre a buttare le braccia al collo del portierone.

Abbracciami e fammi sentire che sono solo mie piccole paure.